Montepeloso
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lunedì 3 giugno 2019

Giugno e luglio nelle tradizioni di Montepeloso Irsina


Per il 24 giugno, natività di San Giovanni Battista, si mettevano in movimento tutte le ragazze da marito, timorose e speranzose nello stesso tempo. La sera del 23 esse esponevano, al sereno fresco della notte, dei fiori di cardo che da noi si chiamano appunto i San Giuwann, dopo averli esposti ad una fiamma fino a bruciacchiarli.
La mattina successiva le ragazze accorrono al balcone o alla finestra, piene d’ansia, a leggervi il vaticinio. Se il cardo sarà appassito la signorinella si attenderà una ben triste sorte perché non troverà facilmente marito. Se, invece, l’umidità della notte ha ravvivato il cardo, l’avvenire della ragazza è pieno di speranza e un fidanzamento è in vista. Il risultato, tuttavia, non è mai stato definitivo da non lasciare almeno una speranza o da non suscitare qualche perplessità. Tutto dipende, cioè, dal grado di bruciacchiatura del san Giuwann, il quale si riprenderà nella misura che la fiamma non ne ha ustionato gravemente il cormo. E tutto, quindi, ritorna come prima. Le ragazze sperano, le ragazze temono. Ma a quell’età si spera più di quanto si tema.
A luglio si carra e si pesa cioè si trasportano i covoni sull’aia e si trebbia. Si carrava con i traini o a schiena, cioè a dorso di mulo o di asino. Per rendere possibile il carico di un buon numero di covoni sul dorso di una bestia, si usavano certi arnesi detti cònole, gli scheletri di due semicilindri fatti di tamerici o di altri fusti flessibili, che si appendevano orizzontalmente ai due fianchi dell’animale, a mo’ di cesti, e che si colmavano di covoni.
P’i conl e p’a loun
Vann d trendòn

Con le cònole e con la luna vanno di trentuno si diceva di certuni, ai quali, in altre circostanze si chiedeva:
tu ca nan fél e nan tiss,
sti gnumr gruss d’addo i hiss?

Tu che non fili e non tessi, questi gomitoli grossi d’onde li esci?

Si pesava con i muli, e per vincere la noia e il caldo, ma anche per incitare le bestie a girare, con gli occhi bendati, continuamente intorno al contadino che stando fermo in mezzo all’aia, teneva le redini, questi cantava lunghe nenie in cui si parlava di bella lontana, di tradimento, ma anche di storie appassionate o ironiche o salaci, ispirate sempre a fatti paesani realmente accaduti e interrotte ogni tanto dal grido: - ihscé -  di incitamento alle bestie, che si chiamavano Bellina o Colonna o anche Caterina, Ciccillo, Minguccio, come fossero persone.

Le spigolatrici pesavano nell’abitato, con le mazze o con le cinghie e ventilavano con un crivello. C’erano donne che riuscivano a racimolare così, l’annata del grano occorrente alla famiglia. Anche le donne cantavano qualche volta, ma non gli stessi canti degli uomini. Questi cantavano, perché nell’aia svolgevano mansioni d’attesa, fermi al centro della battitura. Ma come potevano cantare le donne, chine continuamente in cerca della spiga caduta, oppure, inginocchiate a menare grandi colpi di mazza per battere il grano? La loro fatica, per quelle che spigolavano, era molto più improba di quella degli uomini.
Ecco alcune strofe di canti dell’aia, in cui la critica sociale e di costume, ma specialmente il sottobosco della vita paesana sono evidenti:
U muntagnùl’ d’ss’:
c’t’n’ i sold’ semp’ cont’;
c’t’n’ a m’gghi’ra boun’
semp’ cant’.
 Tratto dal libro di 



Michelino Dilillo 






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