Durante la mietitura e la trebbiatura si usavano
fare cinque pasti giornalieri:
u muzzc, una prima colazione verso le
sette di mattina;
a fedd, una seconda colazione più
consistente verso le dieci,
il pranzo a mezzogiorno,
a murènn, la merenda, al tramonto;
la cena, la minestra calda
finalmente, la sera, nella masseria se i lavoratori pernottavano in campagna,
alla casa del padrone se tornavano in paese.
Storielle sul comportamento dei lavoratori e dei
padroni, proprio a proposito du cumpanagg, non possono mancare.
Due mi sembrano rappresentative, perché esaminano il problema dai due punti di
vista.
Raccontavano i
lavoratori:
un padrone, per a fedd,
stende in terra la bisaccia con la spesa
e mette fuori: pane, un pezzo di formaggio, qualche scatola di salmone e molte
teste di cipolla. È tipico, il salmone, insieme alle uova ad occhio
di bove, cioè fritte nell'olio fino a diventare sode, mentre il bianco si
rapprende attorno al tuorlo il quale rimane coperto e chiuso nell'albume. Si
chiamava salmone quello che in effetti era sgombro conservato.
Insomma, salmone, formaggio e tanta cipolla; il padrone incomincia
subito a vantare la cipolla, nella speranza, evidente, che i mietitori la
preferiscano al formaggio e al salmone, e dando personalmente l’esempio,
servendosi di cipolla con declamata soddisfazione:
-
Aah, quant’è buona ‘sta
cipolla, assaggiate, assaggiate.
I mietitori, però, non se ne danno per intesi e
continuano a mangiare formaggio e salmone insieme al pane. Solo un giovanottino,
figlio di un mietitore, che si accompagna alla paranza come legante,
ingenuo e poco esperto, e soprattutto timido, non osa, per le continue
insistenze del padrone, toccare formaggio e pesce, accontentandosi delle
cipolle. Il padre lo osserva lo scruta, lo guarda e alla fine sbotta:
-
Uagliò, làss a cpòdd ca l’ piec o patròn!
Raccontavano i
padroni:
una paranza di mietitori andò nel campo e per prima
cosa vollero mangiare. Rassicurarono il padrone dicendo che ciascuno di loro
conosceva la propria falce e non c’era, perciò, urgenza alcuna. Al momento
buono ognuno avrebbe fatto vedere quel che valeva. Più tardi, quando il sole si
era fatto cocente chiesero al padrone di fare a fedd e poi si stesero a
schiacciare un pisolino. Tanto, col fresco, tu
conosci la falce tua, io conosco la mia, il campo sarebbe stato
mietuto in meno che non si dica. Così giunse l’ora del pranzo e quello della murènn,
ma il campo rimase in piedi com’era al mattino. Solo la spesa era stata
liquidata.
Ma c’è una terza storiella che fa ridere tanto i
lavoratori quanto i padroni, volendo sottolineare solo la stupidità di certe
donne. Una di queste, al momento del pranzo mise fuori un recipiente,
solitamente usato come vaso da notte in quelle case prive di impianti igienici
(che allora erano quasi tutte e che oggi risultano ancora la maggior parte), e
nel quale aveva preparato la minestra fredda. È un vaso di creta che
rassomiglia molto a un alto cappello a tuba rovesciato, che in dialetto si
chiama u prees. Naturalmente gli occhi di
tutti, padrone compreso, mostrano tutto il turbamento possibile in casi di
questo genere. La padrona, però, senza scomporsi: Eh sì – esclamò – ha fatto diciassette
anni di servizio ma l’ho sciacquato ben bene con l’acqua fresca.
Tratto dal libro di
Michelino Dilillo
IRSINA
credenze, usanze, tradizioni montepelosane
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