Il mese di febbraio è detto «corto e mal cavato», con allusione ai capùnti
pasta fatta in casa e cavata con le dita, i quali, quando sono appunto mal
cavati sono duri e indigesti.
Il 2 febbraio, ricorrenza della Candelora, dà lo
spunto ad altre osservazioni metereologiche.
a Cannelòr
a gaddén fec l'ove
Ma più diffusa era la breve filastrocca metereologica:
A Cannelòr
a v'rnét ie assot for
r'spònn a vecchia arraggét
amma sci fin a Nunziét
e rispònn u pappagall
amma arr'vè a San Catall.
Si comincia con l’osservare che la
gallina fa le uova e successivamente che la vernata è uscita fora. Ma risponde
la vecchia raggiata: andremo fino all’Annunziata, il 25 marzo.
Anche il
pappagallo
(sic – per la rima), interviene a questo punto: ne avremo fino a San Cataldo
(10 maggio).
Carnevale, infine, è la ricorrenza che ha dato vita
ad una delle più belle leggende irsinesi.
Il martedì grasso a mezzanotte in
punto, muore Carnevale, uomo notoriamente crapulone e dissoluto. Negli
ultimi tre giorni di sua vita ognuno poteva vedere agli angoli delle strade,
seduti su sedie appese ai muri delle case, tanti fantocci che rappresentano
quest’omone chiamato Carnevale, ricavati riempiendo di
paglia indumenti maschili, in modo da ricostruire sagome press’a poco umane.
Il
Carnevale
aveva, invariabilmente, un gran fiasco di vino (vuoto), con la cannella
inastata sulle gambe, e intorno al collo e pendente sul petto del fantoccio, un
serto di salsiccia rappresentata burlescamente da peperoni secchi o da teste
d’aglio legati a corona.
A mezzanotte in punto del martedì, dunque Carnevale
muore, e le campane ne danno il triste annuncio suonando a mortorio (l’annuncio
della quaresima, in liturgia). Rimangono sconsolata ed afflitta in sommo grado,
la moglie, Pasquagrande e, orfane senza dote, sei figlie, tutte da marito:
Anna, Susanna, Ribecca, Ribanna, Cicilia, Cicilianna.
Le sette Quarantane
soffrono e lavorano molto per tutti i giorni della settimana. Ognuno le
poteva vedere, vestite a lutto, attaccate ai fili cui si stendono i panni del
bucato. Ma sono premiate dei loro sacrifici, tanto che se ne sposa una a
cominciare dalla maggiore, in ognuna delle domeniche di quaresima, durante le
quali si interrompe il lutto per tutta la famiglia. E si interrompe la
quaresima per far bisboccia fra tutta la cittadinanza. Alla fine anche la
madre, Pasquagrande, libera ormai dai pesi familiari, convola a nuove,
giustissime e desiderate nozze nel giorno della resurrezione da cui il nome di Pasquagrande.
A Irsina, però, non si usa sposarsi di quaresima. In
questo periodo solo gli scappatizzi si sposano, naturalmente
a candele spente.
La leggenda delle Quarantane intanto mette in rilievo
un'altra usanza paesana. Quando c'erano più figlie da maritare difficilmente si
sposava la minore se non se n'era andata la maggiore. Le figlie soprattutto ma
anche i figli a meno che non ostassero particolari motivi, si sposavano in
rigoroso ordine di anzianità.
Tutto il carnevale, che ha inizio il 17 gennaio
giorno dedicato a Sant’Antonio abate, patrono dei porci, si svolgeva secondo
certe, complicate regole. C’era il giovedì del compare, per esempio,
l’ultimo giovedì; e l’ultima domenica di carnevale anche assumeva particolare
solennità.
La prima domenica di quaresima, inoltre, si usava rompere la pignatta,
il che consisteva in un gioco nel quale il prescelto che veniva bendato,
doveva rompere un paiolo di creta, penzolante com'era nel vuoto attaccato a uno
spago con un bastone. Gli astanti si divertivano a vederlo annaspare al buio e
a tirare colpi alla cieca. Ma dovevano anche badare a che qualcuno di quei
colpi non si scontrasse con la propria capoccia. Alla fine la pignatta veniva
rotta e si faceva una tavolata con il contenuto della pentola e con altre
cibarie. Rompere la pignatta, come altrove si festeggia la pentolaccia pare sia
una tradizione di origine spagnola.
Tradizionali erano all'ultima cena di Carnevale, le capuzzelle
d’agnello arraganate, cioè cotte a fuoco sotto e a fuoco sopra e condite
con mollica di pane, origano e aglio.
Molte mascherate si facevano e
si fanno durante il Carnevale. Il pezzo forte ai giorni nostri, (anni 60 del 900) è costituito
proprio dall'allestimento, al martedì grasso, dei funerali di Carnevale. Un
carro gira per il paese, con una bara nella quale è steso il fantoccio del
beneamato. Molta gente intorno, travestita nei modi più impensati, anche da
cow-boy o da pirata, da bandito o da donna, piange e si dispera.
Lazzi e risate
sono all'ordine del giorno. Anticamente, invece, la maschera più in voga era la
montagnola,
che indossava un costume delle donne dei paesi di montagna (Provincia di
Potenza). Anche allora, però, se si eccettui la montagnola, non vi erano
maschere fisse. Esse però, usavano sempre uno strumento caratteristico detto cupa-cupa,
e cantavano, con l’accompagnamento stridulo di quella cannuccia vibrante, una
lunghissima filastrocca, il cui ritornello diceva:
Cara Ninella, Ninuzza, Ninà
Cara Ninella, Ninuzza, Ninà.
Le strofe erano molte e varie, spesso improvvisate.
Eccone alcune.
Quann’ chiôuv’, chiôuv’ fèn’ fèn’,
alz’t’ zi-zio e damm’ la
farèn’
quann chiôuv’, chiôuv fort’fort’
alz’t’ zi-zio e damm’ la
r’cott’.
Principalmente si prendeva di mira il porco da poco
macellato, e naturalmente, i suoi prodotti:
Agghi’ sapôt’ ch’a’i’ accès’ u purc’,
quann’ m’ vèd’a mmèm’, fai’
u moss’turt’”.
“Coss’ cuba-cuba non vôul’ patèt’,
Vôul’ la salsizz’ p’ tott’a
subbr’ ssèt’
Quando piove fino fino
alzati zi-zio e dammi la farina;
quando piove, piove forte forte
alzati zi-zio e dammi la ricotta.
Ho saputo che hai ammazzato il porco
quando mi vedi fai il muso storto.
Questo cuba-cuba non vuole patate
vuole la salsiccia insieme alla soppressata.
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