Montepeloso
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domenica 3 febbraio 2019

Febbraio nelle tradizioni montepelosane

Il mese di febbraio è detto «corto e mal cavato», con allusione ai capùnti pasta fatta in casa e cavata con le dita, i quali, quando sono appunto mal cavati sono duri e indigesti.


Il 2 febbraio, ricorrenza della Candelora, dà lo spunto ad altre osservazioni metereologiche. 


a Cannelòr
a gaddén fec l'ove


Ma più diffusa era la breve filastrocca metereologica:
A Cannelòr
a v'rnét ie assot for
r'spònn a vecchia arraggét
amma sci fin a Nunziét
e rispònn u pappagall
amma arr'vè a San Catall.

Si comincia con l’osservare che la gallina fa le uova e successivamente che la vernata è uscita foraMa risponde la vecchia raggiata: andremo fino all’Annunziata, il 25 marzo. 
Anche il pappagallo (sic – per la rima), interviene a questo punto: ne avremo fino a San Cataldo (10 maggio).

Carnevale, infine, è la ricorrenza che ha dato vita ad una delle più belle leggende irsinesi. 

Il martedì grasso a mezzanotte in punto, muore Carnevale, uomo notoriamente crapulone e dissoluto. Negli ultimi tre giorni di sua vita ognuno poteva vedere agli angoli delle strade, seduti su sedie appese ai muri delle case, tanti fantocci che rappresentano quest’omone chiamato Carnevale, ricavati riempiendo di paglia indumenti maschili, in modo da ricostruire sagome press’a poco umane. 

Il Carnevale aveva, invariabilmente, un gran fiasco di vino (vuoto), con la cannella inastata sulle gambe, e intorno al collo e pendente sul petto del fantoccio, un serto di salsiccia rappresentata burlescamente da peperoni secchi o da teste d’aglio legati a corona. 

A mezzanotte in punto del martedì, dunque Carnevale muore, e le campane ne danno il triste annuncio suonando a mortorio (l’annuncio della quaresima, in liturgia). Rimangono sconsolata ed afflitta in sommo grado, la moglie, Pasquagrande e, orfane senza dote, sei figlie, tutte da marito: Anna, Susanna, Ribecca, Ribanna, Cicilia, Cicilianna. 

Le sette Quarantane soffrono e lavorano molto per tutti i giorni della settimana. Ognuno le poteva vedere, vestite a lutto, attaccate ai fili cui si stendono i panni del bucato. Ma sono premiate dei loro sacrifici, tanto che se ne sposa una a cominciare dalla maggiore, in ognuna delle domeniche di quaresima, durante le quali si interrompe il lutto per tutta la famiglia. E si interrompe la quaresima per far bisboccia fra tutta la cittadinanza. Alla fine anche la madre, Pasquagrande, libera ormai dai pesi familiari, convola a nuove, giustissime e desiderate nozze nel giorno della resurrezione da cui il nome di Pasquagrande.

A Irsina, però, non si usa sposarsi di quaresima. In questo periodo solo gli scappatizzi si sposano, naturalmente a candele spente. 

La leggenda delle Quarantane intanto mette in rilievo un'altra usanza paesana. Quando c'erano più figlie da maritare difficilmente si sposava la minore se non se n'era andata la maggiore. Le figlie soprattutto ma anche i figli a meno che non ostassero particolari motivi, si sposavano in rigoroso ordine di anzianità.

Tutto il carnevale, che ha inizio il 17 gennaio giorno dedicato a Sant’Antonio abate, patrono dei porci, si svolgeva secondo certe, complicate regole. C’era il giovedì del compare, per esempio, l’ultimo giovedì; e l’ultima domenica di carnevale anche assumeva particolare solennità. 

La prima domenica di quaresima, inoltre, si usava rompere la pignatta, il che consisteva in un gioco nel quale il prescelto che veniva bendato, doveva rompere un paiolo di creta, penzolante com'era nel vuoto attaccato a uno spago con un bastone. Gli astanti si divertivano a vederlo annaspare al buio e a tirare colpi alla cieca. Ma dovevano anche badare a che qualcuno di quei colpi non si scontrasse con la propria capoccia. Alla fine la pignatta veniva rotta e si faceva una tavolata con il contenuto della pentola e con altre cibarie. Rompere la pignatta, come altrove si festeggia la pentolaccia pare sia una tradizione di origine spagnola.

Tradizionali erano all'ultima cena di Carnevale, le capuzzelle d’agnello arraganate, cioè cotte a fuoco sotto e a fuoco sopra e condite con mollica di pane, origano e aglio.

Molte mascherate si facevano e si fanno durante il Carnevale. Il pezzo forte ai giorni nostri, (anni 60 del 900) è costituito proprio dall'allestimento, al martedì grasso, dei funerali di Carnevale. Un carro gira per il paese, con una bara nella quale è steso il fantoccio del beneamato. Molta gente intorno, travestita nei modi più impensati, anche da cow-boy o da pirata, da bandito o da donna, piange e si dispera. 
Lazzi e risate sono all'ordine del giorno. Anticamente, invece, la maschera più in voga era la montagnola, che indossava un costume delle donne dei paesi di montagna (Provincia di Potenza). Anche allora, però, se si eccettui la montagnola, non vi erano maschere fisse. Esse però, usavano sempre uno strumento caratteristico detto cupa-cupa, e cantavano, con l’accompagnamento stridulo di quella cannuccia vibrante, una lunghissima filastrocca, il cui ritornello diceva:

Cara Ninella, Ninuzza, Ninà
Cara Ninella, Ninuzza, Ninà.

Le strofe erano molte e varie, spesso improvvisate. Eccone alcune.

Quann’ chiôuv’, chiôuv’ fèn’ fèn’,
alz’t’ zi-zio e damm’ la farèn’
quann chiôuv’, chiôuv fort’fort’
alz’t’ zi-zio e damm’ la r’cott’.

Principalmente si prendeva di mira il porco da poco macellato, e naturalmente, i suoi prodotti:
Agghi’ sapôt’ ch’a’i’ accès’ u purc’,
quann’ m’ vèd’a mmèm’, fai’ u moss’turt’”.
“Coss’ cuba-cuba non vôul’ patèt’,
Vôul’ la salsizz’ p’ tott’a subbr’ ssèt’

Quando piove fino fino
alzati zi-zio e dammi la farina;
quando piove, piove forte forte
alzati zi-zio e dammi la ricotta.
Ho saputo che hai ammazzato il porco
quando mi vedi fai il muso storto.
Questo cuba-cuba non vuole patate
vuole la salsiccia insieme alla soppressata.
Tratto dal libro di 





Michelino Dilillo 






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