La Portarenacea da cui si entra in paese
venendo dal cimitero è famosa per il fresco e per le polmoniti che offre a chi
vi arrivi e vi transiti, trafelato e accaldato per la dura salita che ha dovuto
superare.
C’è un episodio abbastanza recente, del resto, che risale agli anni ’50,
e che, per la larga risonanza che ebbe tra la popolazione, è indicativo dello
stato e della vitalità di certe credenze. Parlo dell’episodio di cui fu
protagonista quel giovanotto che credette di vedere, sul ponte del macello
vecchio, alcuni spiriti.
Da questo episodio sorse una leggenda nuova su un vecchio ceppo. A circa
cinquecento metri dall’abitato, sulla nazionale che mena a Tolve e a Potenza,
vi è un ponte nelle immediate vicinanze del quale sorgeva, fino al settembre
del 1943, uno stabile in cui era allogato il pubblico macello. Nella notte tra
il 21 e il 22 settembre di quell’anno, una pattuglia di guastatori tedeschi in
ritirata fece saltare il ponte. La mina distrusse anche il macello, che qualche
anno dopo si ebbe un nuovo locale appositamente costruito in altra parte del
paese. Il ponte, tuttavia, ricostruito nel 1944-45, ed il fosso che vi scorre
sotto, continuano ad essere detti, ormai anche ufficialmente, ponte e fosso macello.
Ebbene, su quel ponte, se non sbaglio nel 1935, successe una disgrazia che per
molti anni terrorizzò grandi e piccini. Un ragazzo che montava una delle prime
biciclette di Irsina, scendendo a forte velocità dalla parte dell’abitato, non
imboccò in modo giusto la curva e batté contro la spalliera del ponte, volando
via dal velocipede e finendo morto e sfracellato nel burrone sottostante. La
curva, non c’è che dire, era abbastanza pericolosa. Ma nel dire degli Irsinesi
era lo spirito di quel giovinetto che attirava in incidenti mortali chi vi
transitasse incautamente, specialmente di notte. E molte persone erano disposte
a giurare e a dare particolari del loro fortunoso incontro con il fantasma,
nelle tali e tali circostanze. Dopo il 1943, finalmente, sembrava che nessuno
ricordasse più lo spirito del fosso macello.
Ma ecco che, dopo il 1950, viene
alla ribalta il giovanotto di cui ho parlato all’inizio, il quale asserì di
aver visto il fantasma di un soldato tedesco, morto nello scoppio della
mina, e il cui cadavere, a detta dello stesso spirito attendeva, fra i detriti
del fosso, una più umana sepoltura. È inutile dire che mai un cadavere di un
soldato tedesco, o i resti di un qualunque cadavere era stato trovato tra le
macerie del ponte caduto, né, ovviamente, fu cercato e trovato dopo la rivelazione. Ma quel giovane
insisteva nell’asserzione di aver parlato con il fantasma, di aver ricevuto,
anzi, persino delle sigarette, manco a dirlo di marca tedesca, che naturalmente
egli aveva fumato, e nelle sue fantastiche elucubrazioni smozzicava anche, egli
che non conosceva nemmeno l’italiano, né aveva compiuto particolari studi, né
mai era stato fuori di Irsina, frasi sedicenti tedesche. È certo però che
questo episodio segna un po’ l’apice ed il declino anche, di tali credenze,
perché, se è vero che in un primo momento tutta la popolazione, o quasi,
credette al racconto fantasioso, ben presto nell’opinione pubblica sorsero
correnti contrastanti di increduli e di ironici, disincantati burloni i quali
suggerivano che il giovanotto non vivesse più in ozio e fosse mandato a
lavorare. I familiari, ad ogni buon conto, ricorsero al prete e lo fecero
esorcizzare quale indemoniato.
I morti disgraziati, dunque, continuano ad aggirarsi per questo mondo qualche volta con
buone intenzioni, quasi sempre incattiviti dal loro stato e si presentano ai
vivi sotto forma di fantasmi o di spiriti come si dice da noi. Ma non vi è
nessuna possibilità, per loro, di ritornare fra i vivi. Una leggenda a questo
proposito, narra che il custode del cimitero ha l’ordine di somministrare un
cucchiaino di una sostanza dolcissima e velenosissima a chi, per qualsiasi
motivo pensi di svegliarsi dal sonno eterno dei morti per tornare a vivere su
questa terra, come qualmente accadde ad un ragazzo dodicenne la cui madre, per
il dolore, impazzì fino a divorarsi le mani. La leggenda ricorda l’episodio del
dantesco conte Ugolino anche se nel nostro caso la fame non c’entra per niente.
tratto dal libro di