Montepeloso
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lunedì 2 dicembre 2019

Religiosità popolare e pensiero magico a Montepeloso fra Ottocento e Novecento – 2^ puntata


L’Irsinese ha sempre creduto fermamente negli spiriti. Secondo questa credenza, le anime dei morti per disgrazia o per omicidio (nel caso dello Scazzariddo perché morto senza essere stato battezzato), continuano ad aggirarsi per il mondo e a presentarsi ai vivi, specialmente nel luogo dove è avvenuta la dipartita o nelle immediate vicinanze. Il richiamo alla leggenda di Palinuro è evidente. Ma anche in altri tempi, e non sempre a chiacchierare tranquillamente o a chiedere la venal prece. E neppure a fare opere di bene. Da ragazzo ho sentito spesso parlare di quel vetturale caduto dal traino sulla via di Gravina e rimasto schiacciato sotto le ruote del suo mezzo. La sua anima, anzi, il suo spirito, appariva di notte, e a volte anche di giorno se il luogo era deserto, per indurre in tentazione il malcapitato viandante solitario, specialmente se vetturale anche lui, e portarselo in sua compagnia all’altro mondo. Erano i tempi in cui ancora non erano comparsi dalle nostre parti i mezzi a locomozione meccanica, quando tutte le comunicazioni con i paesi vicini e i tragitti per le nostre campagne erano assicurati, oltre che dal classico cavallo di San Francesco, dagli asini, dai muli e dai traini. Lo stesso servizio postale era assicurato dalla carrozza con cui cominciò a rendersi nota, nel nostro paese, la famiglia dei Capobianco, dei Prospero, come fu soprannominata dal nome del primo esercente. Ricordo ancora, come mi si rizzavano i capelli alla descrizione minuta, colorita, agghiacciante e raccapricciante dei due fratelli annegati nel Bradano che apparivano, torvi in viso e lordi di fanghiglia, in una nuvola di sassi e di vento, a ciel sereno, sulla via, nientemeno, del Santuario di San Michele Arcangelo, nel Gargano, meta di pellegrinaggio di non poche persone di Irsina, a quei tempi, che vi si recavano in carovane di traini, cantando inni religiosi, distrotte, allegri e spesso sapidi stornelli paesani, alternati alla recitazione di lunghe e monotone corone di rosario. I vecchi raccontano ancora con timore superstizioso la mala sorte toccata a quel tale che si avventurò, a mezzanotte in punto, a passare, solo, davanti al cimitero. Fatto segno all’attenzione malevola degli spiriti dei trapassati, egli fu preso da tanta paura che, abbandonata la mula che aveva seco, gambe in spalla, si affrettò verso il paese con tanta lena che a casa dovette mettersi a letto con polmonite fulminante, morendone senza misericordia la mattina successiva.
La Portarenacea da cui si entra in paese venendo dal cimitero è famosa per il fresco e per le polmoniti che offre a chi vi arrivi e vi transiti, trafelato e accaldato per la dura salita che ha dovuto superare.

C’è un episodio abbastanza recente, del resto, che risale agli anni ’50, e che, per la larga risonanza che ebbe tra la popolazione, è indicativo dello stato e della vitalità di certe credenze. Parlo dell’episodio di cui fu protagonista quel giovanotto che credette di vedere, sul ponte del macello vecchio, alcuni spiriti.
Da questo episodio sorse una leggenda nuova su un vecchio ceppo. A circa cinquecento metri dall’abitato, sulla nazionale che mena a Tolve e a Potenza, vi è un ponte nelle immediate vicinanze del quale sorgeva, fino al settembre del 1943, uno stabile in cui era allogato il pubblico macello. Nella notte tra il 21 e il 22 settembre di quell’anno, una pattuglia di guastatori tedeschi in ritirata fece saltare il ponte. La mina distrusse anche il macello, che qualche anno dopo si ebbe un nuovo locale appositamente costruito in altra parte del paese. Il ponte, tuttavia, ricostruito nel 1944-45, ed il fosso che vi scorre sotto, continuano ad essere detti, ormai anche ufficialmente, ponte e fosso macello. Ebbene, su quel ponte, se non sbaglio nel 1935, successe una disgrazia che per molti anni terrorizzò grandi e piccini. Un ragazzo che montava una delle prime biciclette di Irsina, scendendo a forte velocità dalla parte dell’abitato, non imboccò in modo giusto la curva e batté contro la spalliera del ponte, volando via dal velocipede e finendo morto e sfracellato nel burrone sottostante. La curva, non c’è che dire, era abbastanza pericolosa. Ma nel dire degli Irsinesi era lo spirito di quel giovinetto che attirava in incidenti mortali chi vi transitasse incautamente, specialmente di notte. E molte persone erano disposte a giurare e a dare particolari del loro fortunoso incontro con il fantasma, nelle tali e tali circostanze. Dopo il 1943, finalmente, sembrava che nessuno ricordasse più lo spirito del fosso macello. 
Ma ecco che, dopo il 1950, viene alla ribalta il giovanotto di cui ho parlato all’inizio, il quale asserì di aver visto il fantasma di un soldato tedesco, morto nello scoppio della mina, e il cui cadavere, a detta dello stesso spirito attendeva, fra i detriti del fosso, una più umana sepoltura. È inutile dire che mai un cadavere di un soldato tedesco, o i resti di un qualunque cadavere era stato trovato tra le macerie del ponte caduto, né, ovviamente, fu cercato e trovato dopo la rivelazione. Ma quel giovane insisteva nell’asserzione di aver parlato con il fantasma, di aver ricevuto, anzi, persino delle sigarette, manco a dirlo di marca tedesca, che naturalmente egli aveva fumato, e nelle sue fantastiche elucubrazioni smozzicava anche, egli che non conosceva nemmeno l’italiano, né aveva compiuto particolari studi, né mai era stato fuori di Irsina, frasi sedicenti tedesche. È certo però che questo episodio segna un po’ l’apice ed il declino anche, di tali credenze, perché, se è vero che in un primo momento tutta la popolazione, o quasi, credette al racconto fantasioso, ben presto nell’opinione pubblica sorsero correnti contrastanti di increduli e di ironici, disincantati burloni i quali suggerivano che il giovanotto non vivesse più in ozio e fosse mandato a lavorare. I familiari, ad ogni buon conto, ricorsero al prete e lo fecero esorcizzare quale indemoniato.
I morti disgraziati, dunque, continuano ad aggirarsi per questo mondo qualche volta con buone intenzioni, quasi sempre incattiviti dal loro stato e si presentano ai vivi sotto forma di fantasmi o di spiriti come si dice da noi. Ma non vi è nessuna possibilità, per loro, di ritornare fra i vivi. Una leggenda a questo proposito, narra che il custode del cimitero ha l’ordine di somministrare un cucchiaino di una sostanza dolcissima e velenosissima a chi, per qualsiasi motivo pensi di svegliarsi dal sonno eterno dei morti per tornare a vivere su questa terra, come qualmente accadde ad un ragazzo dodicenne la cui madre, per il dolore, impazzì fino a divorarsi le mani. La leggenda ricorda l’episodio del dantesco conte Ugolino anche se nel nostro caso la fame non c’entra per niente.


tratto dal libro di 






Michelino Dilillo 






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