Montepeloso
Tradizioni, storia, curiosità, immagini, lingua.

mercoledì 25 aprile 2018

Irsina, aprile nelle usanze montepelosane

1927
Nel mese di aprile non cambiar vestire. Così ammonisce il proverbio. E si trova quasi sempre confermato. Non siamo ancora nella luna di marzo? E tuttavia è già primavera anche da noi, anche se la mattina e la sera c’è quasi sempre la nebbia (nebbia, tradimento) a causa di molti burroni che circondano l’abitato, come il fosso del Macello, du Scrubbènt, dell’Annunziata, della Porticella, del Vallone, della Portarenacea, del Quartiere, sott a chiazz, sott a Cappell, della Fontana, di Giacomo Mascolo, per nominare solo quelli che circondano l’abitato vecchio. Questi fossi erano il regno dei ragazzi, il posto, direi naturale, dove si può giocare indisturbati alla guerra, o’pizzl   (alla lippa), e shcat’l , scatole di cromativa, ovvero lucido per scarpe schiacciate che tengono il posto delle monete metalliche a mo' di gettoni. 

Questi fossi erano il regno di quella ragazza di cui ho sentito parlare, la quale a sedici, diciassette anni disdegnava ogni comportamento femminile, per agire come un maschio scavezzacollo. Suo gioco preferito era quello di raccogliere tutti i vasi da notte che riusciva a trovare nei cumuli di immondizie, dove erano stati gettati perché inservibili all’uso. Sua cura era di farne un lungo, rumoroso treno, legandoli l’uno all’altro, e percorrendo, così, non solo i fossi, ma anche le strade dell’abitato, deliziando i paesani di rumori e fracassi assordanti. Di quella ragazza, misteriosa si diceva che fosse insieme sia donna che uomo; di lei non si seppe più nulla dopo che le autorità l’ebbero rinchiusa in una casa di correzione.
Nei larghìri, invece, si giocava, al cerchio, a caccia-ferri, e spezzacatene, a cunz’a m’r’tèl, ed anche alla guerra, con pietre e specialmente con pupi (torsoli di pannocchia di granoturco), quando insorgeva qualche controversia tra una compagnia, tutti i ragazzi di un largo, e l’altra. Caratteristico era il giuramento cui si sottoponevano i ragazzi, prima di iniziare il gioco della guerra, e che consisteva nello sputare per terra, a suggello dei patti stabiliti, e passarvi sopra il piede. In casi di maggiore solennità, si sputava su una pietra liscia, di natura alluvionale, che si scaraventava subito dopo il più lontano possibile. I ragazzi, inoltre, usavano lo sputo anche per un altro scongiuro. Quando battevano la testa, sputare garantiva il cervello dalla ruggine che in seguito al colpo ricevuto vi si poteva attaccare. Croce e delizia dei ragazzi del secolo scorso erano due figure di vecchietti, Taming’ (Domenico) e Sacrapanz’
Quest’ultimo, simpaticissimo, riusciva a stabilire subito un colloquio con i ragazzi, amava vivere con loro, in mezzo alla strada, assistere ai loro giochi, partecipare alle loro merende, allietandoli, nei momenti di pausa, con il verso degli animali, che rifaceva, rivelandosi perfetto imitatore specialmente del chicchirichì
Circa il suo strano nome non c'erano spigazioni: solamente questa filastrocca, il cui senso, però, è molto preciso:
Sacrapanz’, padron d’acc’llènz’:
a fatèch’ s’à scanz’,
u mangi’ s’ mètt: mmenz’

E tuttavia Sacrapanz’ non è stato mai considerato uno sfaticato. Il poveretto morì in mezzo alla strada, all’angolo del Banco di Napoli, e forse fu la migliore morte, che egli stesso potesse sperare, d’un colpo, senza soffrire. Taming’ invece, era piuttosto scorbutico, e non amava gli scherzi dei ragazzi. Li minacciava con il bastone, quando gli andavano intorno e quelli lo ripagavano con la innocente, incosciente crudeltà, che è proprio dell’età, insultandolo e tirandogli le pietre.
 
Ad aprile cominciano i mesi alti, in cui la giornata si è allungata di parecchio, non finisce mai, il raccolto è ancora lontano e le provviste sono esaurite. 

Erano mesi brutti, in cui molta gente soffriva letteralmente la fame, allorché non si poteva parlare di conquiste sindacali ed ogni moto di scontento era represso con la forza. 
Le erbe, erbe di ogni genere e qualità, coltivate e selvatiche, selvatiche soprattutto perché non occorreva comprarle, costituivano il cibo principale di molte famiglie. Ai ragazzi, per la colazione e la merenda si riservavano un pugno di fichi secchi o di fave arrostite. Gli adulti, ed anche i bambini, a mezzogiorno e sera mangiavano rape, cavoli, cicorie ed erbe selvatiche: cicorielle, finocchietti, lattaròl, jate (cicorie selvatiche dal gambo rossastro, specie di bietole). 
Pancotto tutti i giorni, per l’unico pasto di famiglia, la sera, quando gli uomini tornavano dal lavoro se non erano disoccupati. Oppure si mangiava polenta di granoturco. Con la farina gialla si faceva anche la focaccia di mais, una specie di pane che spaccava le labbra e la bocca a mangiarlo. Solo la domenica e alla festa grande, Natale, Pasqua, Sant'Eufemia, c’era la pasta asciutta. I ragazzi, fuori dei pasti, cercavano e mangiavano altre erbe selvatiche, i cardòn, purché non fossero pisciacchieri; a ciotola-ciotola, erba dal gambo acidulo; i lattuquell, u pengruss.
Di erbe vivevano i contadini poveri e i braccianti disoccupati, vendendole, o più spesso, facendole vendere alle mogli per le strade.< Il richiamo di chi girava il paese a venderle era conosciuto in ogni parte dell’abitato: ehi, ca téngh i c’còri, - ehi, ca téngh i c’còri.
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Tratto dal libro di Michelino Dilillo 
IRSINA 
credenze, usanze, tradizioni montepelosane

mercoledì 4 aprile 2018

I ZANN


I Zann

-   Andiamo a vedere le rane ‑ insisteva Caitanocc, mentre giugno rincorreva tra gli sterpi l'ultima ombra spersa dopo il mezzogiorno.
-      Sscchh, che dormono…
Bisbigliavano Caitanocc e Hangiulèn, stesi sui sacchi sotto il portico dietro la casa, con la voce affogata d'aria bollente.
Allargando le guance e strizzando gli occhi, sussurravano quasi senza suoni.
Il sole si abbatteva sulle pareti della stalla imbiancate da poco e inseguiva l'ultima lucertola nel buco più piccolo della calanca.
-      E andiamo, dai.
-      È lontano: mamma non vuole.
Giugno stana le serpi col fuoco e la caligine fa tremolare l'ulivo dietro la casa.
-      Non è lontano, tua madre non dice niente.
-      Ci sono i Zann.
-      See …
I Zann non hanno corpo, ardono gli occhi se li guardi, consumano il cuore se li vedi, affogano la testa se li pensi.
-      E andiamo – e la spingeva col piede nudo.
-      Prendono chi disobbedisce, non lo sai? ‑ disse col ditino alzato ad ammonire.
Le cicale tacquero d’un tratto così che il silenzio si fece di piombo fuso; due vipere amoreggiavano immobili sull'aia, strette, attorcigliate, sibilavano furore.
Zann era padrone, febbricitante e rabbioso. Senza le brache pisciava lingue di fiamma.
-      Se lo incontri ‑ disse Hangiulèn‑ ti caca fuoco rosso in bocca.
Caitanocc strinse i denti.
-      E se ti prende, con una mestola di rame ti mette fuoco bianco sulle mani, liscio come l'olio bollente. E se tu gridi non esce la voce e nessuno può sentirti, anche da vicino, perché il grido tuo se lo beve il fuoco.
E lei stessa arrochiva la voce, sgranando gli occhi neri e larghi sul cugino.
-      So’ tott fissarei, ha detto papà ‑ fece Caitanocc.
-      Tu prova a disubbidire e vedrai che ti succede.
La pendola gocciolò minuti sotto il porticato, lo scarabeo appallottolò quel tempo fra lo sterco e lo covò, cullando l'autunno figlio tenero.
-      Stiamoci qui, giochiamo sulla paglia.
-      Sono tutte cazzate – protestava Caitanocc.
-      Zio Pancrazio è un miscredente ‑ disse Hangiulèn che sudava perle.
-      Non gridare che ti sentono – la zittì Gaetano.
Controra. L'ombra della casa gonfia di fatica divenne più scura; si udiva ronzare il sonno degli uomini, il fiato leggero delle donne, il volteggiare ottuso delle mosche. Le serpi si sciolsero e scivolarono sfrigolando sulle stoppie, un soffio di polvere e paglia si alzò dai campi, scintille d’oro s’avvolsero nell’aria.
-      Li senti che arrivano?

-- adattamento 
 di Costantino Dilillo -

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PAG 41 - -

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Zann, Zanni, Zannu è nome diffuso in tutta Italia; nella commedia dell'arte è il nome generico del servitore furbo o sciocco che interagisce con un padrone autoritario o sciocco a sua volta per la ilarità del pubblico.
L'origine del nome sembra essere la derivazione in Lombardo del nome Gianni, Giovanni, diffuso fra la popolazione veneta. Dal poverissimo Veneto la emigrazione verso la Lombardia (e verso tutta Italia ed Europa) era fenomeno cospicuo; si prese così a denominare Zanni ogni veneto che girasse, mal in arnese, per le contrade lombarde a cercare nutrimento; Per estensione divenne Zanni il girovago mal vestito e affamato, pronto a tutto pur di avere da mangiare.
Al Sud, specie in Sicilia, Zanni, o Zannu, è quasi sinonimo di "zingaro" per la medesima ragione: Zann è chi girovaga in cerca di sostentamento. 
In vaste zone della Sicilia, Zannu, sta proprio per zingaro e nella zona di Modica nel Ragusano, Zanni sono gli zingari che si aggirano per il territorio e sopraggiungono nei campi d'estate, sotto il calore forte del sole, a spigolare. Un forte nesso si può ritenere esistere fra questa tradizione irsinese e la definizione di "Zann" anche in considerazione che gli Zann irsinesi, al pari di quel che si reputa abitudine degli zingari, siano dediti a rubare i bambini.
Originalissimo, pare, unico in Irsina l'arruolamento degli Zann nelle truppe degli spauracchi per i bambini, assieme a Zinannurc, alla Mano-lunga, a u Papùnn.

lunedì 2 aprile 2018

Irsina, tradizioni pasquali


Pasqua era una delle poche occasioni per festeggiamenti eccezionali. A Pasqua tutti andavano in chiesa, senza, però, che questo significasse un maggior avvicinamento allo spirito religioso. Erano le fastose e solenni cerimonie che attiravano la popolazione anche per il misterioso, il teatrale, il commovente ed il tragico che facevano di esse veri e propri spettacoli. Non a caso si è diradata sempre più la folla di uomini che frequentavano le funzioni pasquali, da quando si è aperto nel 1939, il primo cinematografo e successivamente, da quando la guerra e la ventata nuova che ne seguì non intaccarono per sempre, credenze, usanze, abitudini.
Le funzioni religiose avevano tre momenti culminanti, tutti e tre contrassegnati da quel tanto di gusto profano e spettacolare da indurre Irsinesi che mai frequentavano la chiesa, ad entrarvi per assistere ad esse. Il canto del «passio», la domenica delle palme, la visita al sepolcro e la predica prima della processione la notte tra il giovedì e il venerdì santo; la «nascita del Redentore», cioè la cerimonia della resurrezione la mattina del sabato santo. Per le donne, invece, momenti particolarmente interessanti erano: la preparazione, molto tempo prima, in casa, del sepolcro ed il suo allestimento in chiesa, il pomeriggio di giovedì santo; la processione della sera del giovedì, e per le ragazze quella del venerdì mattina; la cerimonia del venerdì santo, in chiesa, detta «scartare Cristo», cioè toglierlo dal sepolcro; il momento immediatamente successivo alla resurrezione, quando si «sciolgono le campane» e «si suona a gloria» ed è necessario «scacciare il diavolo» dalle case, operazione che, nella settimana che segue, in albis, è perfezionata dal parroco che benedice tutte le case della parrocchia.
  Il «passio» era cantato, la domenica delle palme, da tre valenti sacerdoti: l’arciprete don Luigi Caserta, che cantava la parte di Cristo, e l’arcidiacono don Giuseppe Ostuni; il terzo era il canonico don Domenico Buccoli, che faceva la parte del narratore, l’evangelista. Il canto gregoriano, e quel che riuscivano a capire, dopo averne sentito parlare per tanti anni, del latino evangelico, commuoveva fino alle lacrime quegli uomini induriti dalla fatica e dai patimenti, e che non erano facili al pianto. La domenica delle palme vedeva anche lo sfarzo di «palme», cioè rami d’ulivo, di pino, di oleandro indorati o inargentati con cui i paesani «facevano la maffia», si pavoneggiavano per le vie dell’abitato, specialmente i giovani che corteggiavano le ragazze, pronte queste ultime, a spiare, attraverso l’apertura delle velette, e a soffocare le risa, abbassando la testa e socchiudendo gli occhi. A mezzogiorno tutti mangiavano il tradizionale piatto di lasagna riccia condita con mollica fritta e mircùtt, vincotto di fichi.
  La sera del giovedì santo il dotto canonico don Antonio Ortolani diceva una lunga predica, in «sette parti», che immancabilmente si chiudeva con l’invocazione: «Maria, prendi tuo figlio»; e con l’inserimento, dal pulpito dove si trovava, di un crocifisso tra le braccia della statua della Madonna addolorata, in gramaglie, che una piccola processione vi aveva portato sotto. Iniziava, così, ufficialmente, la processione del giovedì santo, che dalla Cattedrale, dove prendeva il via, si portava alla chiesa del S.S. Salvatore, dove si formava il lungo corteo, con diverse statue, (Cristo con la canna, Cristo con il globo, Cristo nel sepolcro; oltre s’intende, alla Madonna addolorata) mentre delle ragazzette vestite da verginelle portavano, con mani che si sforzano di essere ferme, i chiodi, la scaletta, il martello e le tenaglie della crocifissione. La processione, così si snodava per l’abitato, sostando per pochi minuti davanti ad ogni chiesa nella quale il sacerdote, entrato con pochi fedeli e la statua della Addolorata, intonava alcune preghiere. Rappresentava, insomma il peregrinare della Madonna in cerca del suo figliuolo.

  Prima della processione, intanto, e durante il suo giro, gruppi di persone facevano la visita al sepolcro che era stato preparato in tutte le chiese. Per «sepolcro», da noi, si definiscono due cose distinte. Sepolcro è la piantagione in acqua, in piatti «mezzani» per lo più, di legumi o cereali, i quali si fanno germogliare e crescere al buio. Le piantine, poiché è stata impedita la funzione clorofilliana, vengono gialline, e danno l’idea di erba cresciuta in luoghi umidi, freddi e bui, quali possono essere, appunto, i sepolcri; mentre le radici si sviluppano e si intessono, in tanto poco spazio,formando una specie di tappeto compatto. Queste piantagioni in piatti, preparate sin dall'inizio della quaresima, in casa, si sistemano, il mercoledì santo, in canestri o su treppiedi di catinelle, addobbati con fiori e rose di carta, di tutte le qualità e di tutti i colori, sullo sfondo della «sparacina», pianta pungente del bosco, ad arbusto; e con esse si prepara il «sepolcro» vero e proprio, in chiesa, tra la mattina e il pomeriggio di giovedì santo. Particolare attrazione presentava la chiesa dell’Annunziata, con una bara di vetro deposta sul sepolcro, nella quale si vedeva il corpo steso di Cristo morto. Dopo che il sepolcro in chiesa veniva disfatto, il venerdì santo, nella cerimonia dello «scartare il Cristo» le piantagioni di sepolcro ormai benedette, si portavano in campagna e si sistemavano nei campi e fra le vigne come augurio di buon raccolto.
La mattina del sabato santo, in Cattedrale, la «nascita del redentore» richiamava una massa enorme di gente, uomini, ragazzi e giovinastri, i quali ultimi non vedevano l’ora al fatidico “gloria in excelsis Deo” dell’officiante, quando si mettevano in opera, dietro l’altare maggiore, i meccanismi che portavano all'apparizione improvvisa  e drammatica del grande quadro imitante la Resurrezione di Raffaello, non vedevano l’ora di darsi all'impazzata a provocar rumori indiavolati, per simulare il «terremoto», agitando le raganelle o, con più fracasso, ma anche più danno, battendo grossi sassi e fracassando sedie, banchi, confessionali e quanto altro trovavano a portata di mano. Non è stato raro il caso che si sia richiesto l’intervento dei carabinieri. Altri, più poeticamente commossi dalla «litania di tutti i santi» in canto gregoriano, e dalle genuflessioni continue dei sacerdoti, al momento della «resurrezione» si limitavano a lasciar liberi uccelli e colombi portati apposta in chiesa perché volassero, impauriti e felici della libertà conquistata, per l’ampia cupola della navata centrale, sbattendo contro i vetri dalle immagini colorate dei lucernari.
Le donne, come si è detto, compivano la stessa operazione, cioè «cacciavano il diavolo», in casa, senza danni, però, per liberarla dal satanasso. Le donne, infine, partecipavano alle cerimonie di «resurrezione», che la mattina di Pasqua si ripetevano nelle diverse parrocchie, e a quell'ora i propri mariti pensavano a far esplodere, dai balconi e dalle terrazze, numerosi colpi d’arma da fuoco.
Importante, era, molti anni fa la «via crucis» che si svolgeva durante la settimana santa sul «calvario» sull'altipiano dove attualmente si trova la piazza Andrea Costa e la chiesa così denominata. Tutta quella zona dell’abitato è detta delle «Croci» perché vi erano cinque croci, oltre le due che ancora esistono, una davanti alla chiesa del Calvario, l’altra al quadrivio dove la statale per Bari e Potenza incrocia e taglia l’abitato. Quelle sette croci costituivano altrettante stazioni della via crucis, verosimilmente le ultime. Le prime sei dovevano essere le altrettante chiese, oltre la Cattedrale, esistenti nell'abitato vecchio. La via crucis, insomma, partendo dalla Cattedrale si fermava alle seguenti stazioni: Annunziata, S. Nicola, S. Andrea, S.S. Salvatore, S. Francesco, Purgatorio e poi alle sette croci che allora erano fuori dell’abitato.
Dopo la nascita del redentore, la festa religiosa era finita. Cominciavano i divertimenti profani o, per meglio dire, culinari. Già da mercoledì e giovedì le donne cominciavano ad essere indaffarate a preparare ciambelle, «i cangedd», dolci di ogni genere e «miscùtt'l». Le «cangedde» che è sempre più raro vedere se non nei negozi di biscotti, sono delle ciambelle fatta con pasta salate, odorose di fior di finocchio e attorcigliate a forma di cancellata, d’onde il nome. I «miscùttoli» sono pezzi di pane di varia forma, impastati duri e lessati prima di essere portati al forno. Tutta la fantasia delle donne si sbizzarriva a dar forma a quei pezzi di pane che assumevano i contorni del pesce, del gallo, di altri animali, di un canestro o di un cesto pieno di uova che così si trovano pronte, già lessate, a Pasqua. Con pasta diversa abbrunita dal vincotto si facevano i «pupi», monacelli e monacelle da mettere sotto i denti, per la delizia dei bambini. I «pupi» potevano anche essere di pasta bianca. Ma allora rappresentavano carabinieri, soldati et similia.
Non c’è un piatto tradizionale, per Pasqua, se si eccettuano le uova lesse il cui guscio veniva dipinto nel modo più fantasioso e con i colori più vivaci. Ma in tutte le case, almeno a Pasqua, c’era la carne, per lo più polli o conigli allevati in casa e ripieni di spezzatino. La carne "comprata" era sempre una rarità, un fatto del tutto eccezionale e perciò ispiratrice della credenza secondo cui non si può rifiutarla mai, per nessun motivo senza offendere l’offerente con un grave malaugurio. Anche acquistata la carne non si poteva, per lo stesso motivo, «portare indietro», il che, evidentemente, faceva molto comodo ai beccai, i quali erano quelli che più facevano rispettare la credenza.
Il lunedì, per la pasquetta, si andava «a scomparare», a fare, cioè la tradizionale scampagnata che durava fino a sera con canti, scherzi, grandi bevute, e, se capitava l’occasione, con qualche rissoso litigio.
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Tratto dal libro di Michelino Dilillo 
IRSINA 
credenze, usanze, tradizioni montepelosane