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1927 |
Questi fossi erano il regno di
quella ragazza di cui ho sentito parlare, la quale a sedici, diciassette anni
disdegnava ogni comportamento femminile, per agire come un maschio
scavezzacollo. Suo gioco preferito era quello di raccogliere tutti i vasi da
notte che riusciva a trovare nei cumuli di immondizie, dove erano stati gettati
perché inservibili all’uso. Sua cura era di farne un lungo, rumoroso treno,
legandoli l’uno all’altro, e percorrendo, così, non solo i fossi, ma anche le
strade dell’abitato, deliziando i paesani di rumori e fracassi assordanti. Di quella ragazza, misteriosa si diceva che fosse insieme sia donna
che uomo; di lei non si seppe più nulla dopo che le autorità l’ebbero rinchiusa
in una casa di correzione.
Nei larghìri, invece, si
giocava, al cerchio, a caccia-ferri, e spezzacatene, a cunz’a
m’r’tèl, ed anche alla guerra, con pietre e specialmente con pupi
(torsoli di pannocchia di granoturco), quando insorgeva qualche controversia
tra una compagnia, tutti i ragazzi di un largo, e l’altra.
Caratteristico era il giuramento cui si sottoponevano i ragazzi, prima di
iniziare il gioco della guerra, e che consisteva nello sputare per terra, a
suggello dei patti stabiliti, e passarvi sopra il piede. In casi di maggiore
solennità, si sputava su una pietra liscia, di natura
alluvionale, che si scaraventava subito dopo il più lontano possibile. I
ragazzi, inoltre, usavano lo sputo anche per un altro scongiuro. Quando
battevano la testa, sputare garantiva il cervello dalla ruggine che in seguito al
colpo ricevuto vi si poteva attaccare. Croce e delizia dei ragazzi del secolo scorso erano due figure di vecchietti, Taming’
(Domenico) e Sacrapanz’.
Quest’ultimo, simpaticissimo, riusciva a stabilire subito un colloquio con i ragazzi, amava vivere con loro, in mezzo alla strada, assistere ai loro giochi, partecipare alle loro merende, allietandoli, nei momenti di pausa, con il verso degli animali, che rifaceva, rivelandosi perfetto imitatore specialmente del chicchirichì.
Circa il suo strano nome non c'erano spigazioni: solamente questa filastrocca, il cui senso, però, è molto preciso:
Quest’ultimo, simpaticissimo, riusciva a stabilire subito un colloquio con i ragazzi, amava vivere con loro, in mezzo alla strada, assistere ai loro giochi, partecipare alle loro merende, allietandoli, nei momenti di pausa, con il verso degli animali, che rifaceva, rivelandosi perfetto imitatore specialmente del chicchirichì.
Circa il suo strano nome non c'erano spigazioni: solamente questa filastrocca, il cui senso, però, è molto preciso:
Sacrapanz’,
padron d’acc’llènz’:
a
fatèch’ s’à scanz’,
u
mangi’ s’ mètt: mmenz’
E tuttavia Sacrapanz’ non è
stato mai considerato uno sfaticato. Il poveretto morì in mezzo alla strada,
all’angolo del Banco di Napoli, e forse fu la migliore morte, che egli stesso
potesse sperare, d’un colpo, senza soffrire. Taming’ invece, era
piuttosto scorbutico, e non amava gli scherzi dei ragazzi. Li minacciava con il
bastone, quando gli andavano intorno e quelli lo ripagavano con la innocente,
incosciente crudeltà, che è proprio dell’età, insultandolo e tirandogli le
pietre.
Ad aprile cominciano i mesi alti, in cui la giornata si è allungata di parecchio, non finisce mai, il raccolto è ancora lontano e le provviste sono esaurite.
Erano mesi brutti, in cui molta gente soffriva letteralmente la fame, allorché non si poteva parlare di conquiste sindacali ed ogni moto di scontento era represso con la forza.
Le erbe, erbe di ogni genere e qualità, coltivate e selvatiche, selvatiche soprattutto perché non occorreva comprarle, costituivano il cibo principale di molte famiglie. Ai ragazzi, per la colazione e la merenda si riservavano un pugno di fichi secchi o di fave arrostite. Gli adulti, ed anche i bambini, a mezzogiorno e sera mangiavano rape, cavoli, cicorie ed erbe selvatiche: cicorielle, finocchietti, lattaròl, jate (cicorie selvatiche dal gambo rossastro, specie di bietole).
Pancotto tutti i giorni, per l’unico pasto di famiglia, la sera, quando gli uomini tornavano dal lavoro se non erano disoccupati. Oppure si mangiava polenta di granoturco. Con la farina gialla si faceva anche la focaccia di mais, una specie di pane che spaccava le labbra e la bocca a mangiarlo. Solo la domenica e alla festa grande, Natale, Pasqua, Sant'Eufemia, c’era la pasta asciutta. I ragazzi, fuori dei pasti, cercavano e mangiavano altre erbe selvatiche, i cardòn, purché non fossero pisciacchieri; a ciotola-ciotola, erba dal gambo acidulo; i lattuquell, u pengruss.
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Tratto dal libro di Michelino Dilillo
IRSINA
credenze, usanze, tradizioni montepelosane
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