Pasqua era una delle poche
occasioni per festeggiamenti eccezionali. A Pasqua tutti andavano in chiesa,
senza, però, che questo significasse un maggior avvicinamento allo spirito religioso.
Erano le fastose e solenni cerimonie che attiravano la popolazione anche per il
misterioso, il teatrale, il commovente ed il tragico che facevano di esse veri
e propri spettacoli. Non a caso si è diradata sempre più la folla di uomini che frequentavano le funzioni pasquali, da
quando si è aperto nel 1939, il primo cinematografo e successivamente, da
quando la guerra e la ventata nuova che ne seguì non intaccarono per sempre,
credenze, usanze, abitudini.
Le funzioni religiose avevano
tre momenti culminanti, tutti e tre contrassegnati da quel tanto di gusto
profano e spettacolare da indurre Irsinesi che mai frequentavano la chiesa, ad
entrarvi per assistere ad esse. Il canto del «passio»,
la domenica delle palme, la visita al sepolcro e la predica prima della
processione la notte tra il giovedì e il venerdì santo; la «nascita del Redentore», cioè la cerimonia
della resurrezione la mattina del sabato santo. Per le donne, invece, momenti
particolarmente interessanti erano: la preparazione, molto tempo prima, in
casa, del sepolcro ed il suo allestimento in chiesa, il pomeriggio di giovedì
santo; la processione della sera del giovedì, e per le ragazze quella del
venerdì mattina; la cerimonia del venerdì santo, in chiesa, detta «scartare Cristo», cioè toglierlo dal
sepolcro; il momento immediatamente successivo alla resurrezione, quando si «sciolgono le campane» e «si suona a gloria» ed è necessario «scacciare il diavolo» dalle case, operazione
che, nella settimana che segue, in albis, è perfezionata dal parroco che
benedice tutte le case della parrocchia.
Il «passio» era cantato, la
domenica delle palme, da tre valenti sacerdoti:
l’arciprete don Luigi Caserta, che cantava la parte di Cristo, e l’arcidiacono
don Giuseppe Ostuni; il terzo era il canonico don Domenico Buccoli, che faceva la parte
del narratore, l’evangelista. Il canto gregoriano, e quel che riuscivano a
capire, dopo averne sentito parlare per tanti anni, del latino evangelico,
commuoveva fino alle lacrime quegli uomini induriti dalla fatica e dai
patimenti, e che non erano facili al pianto. La domenica delle palme vedeva
anche lo sfarzo di «palme», cioè rami d’ulivo, di pino,
di oleandro indorati o inargentati con cui i paesani «facevano la maffia», si pavoneggiavano per le vie dell’abitato,
specialmente i giovani che corteggiavano le ragazze, pronte queste ultime, a
spiare, attraverso l’apertura delle velette, e a soffocare le risa, abbassando
la testa e socchiudendo gli occhi. A mezzogiorno tutti mangiavano il
tradizionale piatto di lasagna riccia condita con mollica fritta e mircùtt, vincotto di
fichi.
La sera del giovedì santo il dotto canonico
don Antonio Ortolani diceva una lunga predica, in «sette parti»,
che immancabilmente si chiudeva con l’invocazione: «Maria, prendi tuo figlio»; e con l’inserimento, dal pulpito dove si trovava,
di un crocifisso tra le braccia della statua della Madonna addolorata, in
gramaglie, che una piccola processione vi aveva portato sotto. Iniziava, così,
ufficialmente, la processione del giovedì santo, che dalla Cattedrale, dove
prendeva il via, si portava alla chiesa del S.S. Salvatore, dove si formava il
lungo corteo, con diverse statue, (Cristo con la canna, Cristo con il globo,
Cristo nel sepolcro; oltre s’intende, alla Madonna addolorata) mentre delle
ragazzette vestite da verginelle portavano, con mani che si sforzano di essere
ferme, i chiodi, la scaletta, il martello e le tenaglie della crocifissione. La
processione, così si snodava per l’abitato, sostando per pochi minuti davanti
ad ogni chiesa nella quale il sacerdote, entrato con pochi fedeli e la statua
della Addolorata, intonava alcune preghiere. Rappresentava, insomma il
peregrinare della Madonna in cerca del suo figliuolo.
Prima della processione, intanto, e durante
il suo giro, gruppi di persone facevano la visita al sepolcro che era stato
preparato in tutte le chiese. Per «sepolcro», da noi, si definiscono
due cose distinte. Sepolcro è la piantagione in acqua, in piatti «mezzani» per lo più, di legumi o
cereali, i quali si fanno germogliare e crescere al buio. Le piantine, poiché è
stata impedita la funzione clorofilliana, vengono gialline, e danno l’idea di
erba cresciuta in luoghi umidi, freddi e bui, quali possono essere, appunto, i
sepolcri; mentre le radici si sviluppano e si intessono, in tanto poco
spazio,formando una specie di tappeto compatto. Queste piantagioni in piatti,
preparate sin dall'inizio della quaresima, in casa, si sistemano, il mercoledì
santo, in canestri o su treppiedi di catinelle, addobbati con fiori e rose di
carta, di tutte le qualità e di tutti i colori, sullo sfondo della «sparacina», pianta pungente del
bosco, ad arbusto; e con esse si prepara il «sepolcro»
vero e proprio, in chiesa, tra la mattina e il pomeriggio di giovedì santo.
Particolare attrazione presentava la chiesa dell’Annunziata, con una bara di
vetro deposta sul sepolcro, nella quale si vedeva il corpo steso di Cristo
morto. Dopo che il sepolcro in chiesa veniva disfatto, il venerdì santo, nella
cerimonia dello «scartare
il Cristo» le
piantagioni di sepolcro ormai benedette, si portavano in campagna e si
sistemavano nei campi e fra le vigne come augurio di buon raccolto.
La mattina del sabato santo,
in Cattedrale, la «nascita
del redentore»
richiamava una massa enorme di gente, uomini, ragazzi e giovinastri, i quali
ultimi non vedevano l’ora al fatidico “gloria in excelsis Deo” dell’officiante,
quando si mettevano in opera, dietro l’altare maggiore, i meccanismi che
portavano all'apparizione improvvisa e
drammatica del grande quadro imitante la Resurrezione di Raffaello, non
vedevano l’ora di darsi all'impazzata a provocar rumori indiavolati, per simulare
il «terremoto», agitando le raganelle
o, con più fracasso, ma anche più danno, battendo grossi sassi e fracassando
sedie, banchi, confessionali e quanto altro trovavano a portata di mano. Non è
stato raro il caso che si sia richiesto l’intervento dei carabinieri. Altri,
più poeticamente commossi dalla «litania
di tutti i santi»
in canto gregoriano, e dalle genuflessioni continue dei sacerdoti, al momento
della «resurrezione» si limitavano a lasciar
liberi uccelli e colombi portati apposta in chiesa perché volassero, impauriti
e felici della libertà conquistata, per l’ampia cupola della navata centrale,
sbattendo contro i vetri dalle immagini colorate dei lucernari.
Le donne, come si è detto,
compivano la stessa operazione, cioè «cacciavano
il diavolo», in
casa, senza danni, però, per liberarla dal satanasso. Le donne, infine,
partecipavano alle cerimonie di «resurrezione», che la mattina di
Pasqua si ripetevano nelle diverse parrocchie, e a quell'ora i propri mariti
pensavano a far esplodere, dai balconi e dalle terrazze, numerosi colpi d’arma
da fuoco.
Importante, era, molti anni fa
la «via crucis» che si svolgeva durante
la settimana santa sul «calvario» sull'altipiano dove
attualmente si trova la piazza Andrea Costa e la chiesa così denominata. Tutta
quella zona dell’abitato è detta delle «Croci» perché vi erano cinque
croci, oltre le due che ancora esistono, una davanti alla chiesa del Calvario,
l’altra al quadrivio dove la statale per Bari e Potenza incrocia e taglia
l’abitato. Quelle sette croci costituivano altrettante stazioni della via crucis, verosimilmente le
ultime. Le prime sei dovevano essere le altrettante chiese, oltre la
Cattedrale, esistenti nell'abitato vecchio. La via crucis,
insomma, partendo dalla Cattedrale si fermava alle seguenti stazioni: Annunziata, S. Nicola,
S. Andrea, S.S. Salvatore, S. Francesco, Purgatorio e poi alle sette croci che
allora erano fuori dell’abitato.
Dopo la nascita del redentore, la festa religiosa era
finita. Cominciavano i divertimenti profani o, per meglio dire, culinari. Già
da mercoledì e giovedì le donne cominciavano ad essere indaffarate a preparare
ciambelle, «i cangedd», dolci di ogni genere e
«i miscùtt'l». Le «cangedde» che è sempre più raro
vedere se non nei negozi di biscotti, sono delle ciambelle fatta con pasta
salate, odorose di fior di finocchio e attorcigliate a forma di cancellata,
d’onde il nome. I «miscùttoli» sono pezzi di pane di
varia forma, impastati duri e lessati prima di essere portati al forno. Tutta
la fantasia delle donne si sbizzarriva a dar forma a quei pezzi di pane che
assumevano i contorni del pesce, del gallo, di altri animali, di un canestro o
di un cesto pieno di uova che così si trovano pronte, già lessate, a Pasqua.
Con pasta diversa abbrunita dal vincotto si facevano i «pupi»,
monacelli e monacelle da mettere sotto i denti, per la delizia dei bambini. I «pupi» potevano anche essere
di pasta bianca. Ma allora rappresentavano carabinieri, soldati et similia.
Non c’è un piatto
tradizionale, per Pasqua, se si eccettuano le uova lesse il cui guscio veniva dipinto
nel modo più fantasioso e con i colori più vivaci. Ma in tutte le case, almeno
a Pasqua, c’era la carne, per lo più polli o conigli allevati in casa e ripieni
di spezzatino. La carne "comprata" era sempre una rarità, un fatto del tutto
eccezionale e perciò ispiratrice della credenza secondo cui non si può
rifiutarla mai, per nessun motivo senza offendere l’offerente con un grave
malaugurio. Anche acquistata la carne non si poteva, per lo stesso motivo, «portare indietro», il che, evidentemente,
faceva molto comodo ai beccai, i quali erano quelli che più facevano rispettare
la credenza.
Il lunedì, per la pasquetta,
si andava «a
scomparare», a
fare, cioè la tradizionale scampagnata che durava fino a sera con canti,
scherzi, grandi bevute, e, se capitava l’occasione, con qualche rissoso litigio.
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Tratto dal libro di Michelino Dilillo
IRSINA
credenze, usanze, tradizioni montepelosane
Ho letto con molta attenzione l'articolo sulla Pasqua Irsinese, postato da Costantino DiLillo.
RispondiEliminaEssendo un testimone oculare di quel periodo, mi corre l'obbligo di chiarire qualcosa, visto che "il giornalista"
non ne ha fatto alcun cenno.
Irsina era -adesso un pò meno- fortemente Comunista, tanto che in giro era conosciuta come "IRSINA ROSSA".
Leggendo l'articolo si capisce subito che è di matrice Comunista perchè definire le funzioni religiose della Pasqua come : "misterioso, teatrale, commovente, tragico, spettacolare" una rievocazione evangelica, non si può che essere Comunista di allora. I Cristiani-Cattolici la intendevano, e la intendono,in tutta altra maniera; erano assidui e partecipanti spiritualmente.
E' vero, la cattedrale si riempiva, in quella circostanza di tanta gente, ma questo perchè accorrevano numerosi anche tanti comunisti armati di sassi e bastoni necessari per il fragore che si scatenava al "GLORIA IN EXCELSIS DEO". Demolivano mobili e suppellettili religiosi, tanto che a volte dovevano intervenire i Carabinieri.
Va precisata anche un'altra cosa. Le chiese non si sono svuotate per l' apertura di un cinematografo, ma molto più realisticamente per sopravvenuta EMIGRAZIONE verso l'estero e verso il Nord-Italia. SASSUOLO, TORINO,MILANO e rispettive province sono un triste ,e questo sì,DRAMMATICO capitolo di storia.
Lascio ad altre occasioni le ulteriori precisazioni. Conoscevo di persona il maestro elementare DiLillo, ma almeno, allora tutti lo conoscevano come " l'IDEOLOGO del PCI Irsinese" e ogni precisazione era superflua.
Cordiali saluti a tutti... TONINO MASCOLO da San Remo