Montepeloso
Tradizioni, storia, curiosità, immagini, lingua.

domenica 28 ottobre 2018

Ognissanti e 2 novembre nella tradizione montepelosana. (prima puntata)


Novembre è il mese dei morti.
Il 31 ottobre ci sono stati gli ultimi matrimoni, approfittando della circostanza che per Ognissanti si può ancora festeggiare.
Poi: viene la notte.
Secondo la tradizione montepelosana i morti continuano a vivere in un altro mondo, definito Purgatorio, con evidente richiamo alla terminologia cattolica, ma senza alcun riferimento effettivo all’aldilà cristiano; il riferimento è piuttosto all’Ade, al pagano mondo dei morti, genericamente inteso.
I morti sono le anime del Purgatorio. Ma anime del Purgatorio sono anche i mendicanti che chiedono l’elemosina di casa in casa ed ai quali è scorretto rifiutare l’opera di carità, specialmente il 2 novembre, nel quale giorno si preparano apposta per loro i fef crétt, un paiolo di fave lesse, una sorta di cibo rituale dalle origini antichissime. Nei culti pagani dell'antichità, infatti, si riteneva che le fave contenessero le anime dei trapassati.

Per Ognissanti in casa si preparava anche a cuccéia, una gustosa minestra di chicchi di grano bolliti e conditi pu m’rcutt, delizia per grandi e piccini destinata a essere offerta ai visitatori viventi o ad anime di passaggio.
Proprio la notte del giorno dei morti, alla mezzanotte in punto tra il primo e il due novembre, tutti i morti percorrono in processione le vie del cielo. Allora è possibile vederli, a determinate condizioni e riconoscere fra loro l’ombra dei propri morti, se si è particolarmente fortunati e predisposti. Ma il cielo deve essere sereno, e all'esperimento non deve assistere gente incredula.

La processione si vedrà, insieme alla volta celeste, riflessa nell'acqua limpida di un catino poggiato su di una sedia, all'aperto, illuminato dalla luce di due o tre candele accese che ardano tranquillamente, la cui fiamma, cioè, non sia mossa o peggio spenta dal vento. Il rituale era molto suggestivo, i bambini ammutolivano e fissavano l’acqua tremolante nel catino stringendosi l’uno all'altro per l’emozione che si prova di fronte a un sortilegio.

I morti continuano ad avere relazioni con i vivi, rientrano nel loro mondo di affetti e di risentimenti, di preoccupazioni e di sollecitazioni nelle forme e nei modi più diversi e impensati. Specialmente attraverso i sogni. Nel sogno i vivi incontrano i loro cari defunti, le buone anime, le anime del Purgatorio e ne ricevono consigli e rimproveri, richieste di penitenze e ordini di vendetta, numeri al lotto, preannunci di fatti lieti o tristi che si verificheranno nella nuova giornata o nei prossimi giorni. Tutti i sogni, naturalmente, vanno interpretati, e principalmente è buona norma non raccontarli a digiuno, a scanso di spiacevoli conseguenze. Così, sognare uva è sempre male, nera significa lutto, bianca vuol dire lacrime. Sognare dolci è sempre nefasto, maggiormente se si sogna mangiarli. Sognare morta una persona viva invece, si risolve a vantaggio del sognato: gli accresce gli anni.

Il giorno dopo comincia il continuo via vai per il camposanto. Si va al cimitero in gruppo di amiche o di amici, a volte familiari. Qui si fa la visita al tumulo, si lasciano i crisantemi, si accendono i lumini; pianti, lamenti, ferite e dolori che si riaprono e diventano vivi come se fossero di oggi. Poi si va in giro a visitare i tumuli e le tombe degli altri. Ci si ricorda di un amico, di un conoscente, di un lontano parente e gli si va a fare la visita. Si apprezzano le costruzioni gentilizie, i monumenti funebri, le lapidi, si fanno paragoni e commenti, e anche pettegolezzi che si concludono quasi sempre con la considerazione più ovvia: tutti là andremo a finire. E , significa all'altro mondo; come tu eri, noi siamo; come tu sei, noi saremo.
Chi può, però anche chi non può, certe volte, fa di tutto per avere la sua tomba magari con la lapide già segnata del nome, cognome e data di nascita. Basterà aggiungere l’ultima data.
Per assicurarsi una tomba, un loculo, molti aderivano a una delle tante confraternite istituite, nei secoli scorsi, nelle diverse chiese di Montepeloso, denominate nei modi più vari. Quella che forse esiste tuttora, appunto perché ha una tomba propria al cimitero, nella quale garantisce un posto ai confratelli, è la congrega degli artigiani, istituita, nella chiesa di San Filippo Neri, da lungo tempo chiusa al culto. Intorno al 1715 dallo stesso fondatore, fu istituita la congrega dei contadini, anch'essa ancora esistente, almeno di nomina, ed allogata nella stessa chiesa dell’Annunziata dove fu istituita. Entrambe le congreghe offrivano la possibilità di guadagnare qualche cosa, ogni tanto, ai propri adepti, quando erano invitate ad accompagnare i morti delle famiglie ricche dietro compenso.
Il culto dei morti è molto vivo e rispettato. Ma anche nella morte finisce per entrare la vanità, come, del resto, in tutto il mondo. Così si farà di tutto per chiedere la previtina, o almeno la mezza previtina, o anche soltanto il capitolo. Per previtina si intende l’accompagnamento di tutti i membri del clero locale con i paramenti rituali, per mezza previtina s’intende l’accompagnamento della metà dei membri del clero, con paramenti rituali, per capitolo s’intende l’accompagnamento di tutti i membri del capitolo, ma senza i paramenti sacri. Altra distinzione si nota nella scelta della porta della cattedrale da cui la bara è fatta entrare ed uscire dalla chiesa: si paga di più per entrare dalla porta centrale e di meno se si entra da quella laterale. E ancora: i funerali di lusso, per andare dalla chiesa al cimitero, passano da piazza Garibaldi e Via Roma; gli altri per via Santa Chiara, largo Santa Caterina, largo e via Roma; gli altri per via Santa Chiara, largo Santa Caterina, largo e via S.S. Salvatore. Solo i poveri vanno con l’amore di Dio, con l’accompagnamento cioè, di un solo sacerdote, il parroco, e ricevono la benedizione non nella cattedrale, ma nella parrocchia.
Dopo il Concilio Vaticano II sono state stabilite forme più snelle di funerali che escludono, almeno in teoria, diversità di riti in cambio di diverso pagamento. Ma la vanità si appunta su altri elementi e le differenze permangono.
A proposito di cimiteri, forse conviene ricordare che Montepeloso ebbe un proprio camposanto sin dal 1842, privilegio, a quell'epoca, di ben pochi comuni della regione. Soltanto un anno prima, infatti, lo avevano avuto i due capoluoghi, rispettivamente di provincia e di distretto, Potenza e Matera (vedi: Tommaso Pedio, La Basilicata nel risorgimento politico italiano – Potenza, 1962).
Il Pani Rossi in La Basilicata, opera del 1868 scrive: "Ma ancora dopo il 1860 a Montepeloso, la umana ribalderia sfruttava la singolarità di un suolo umettato di cadaveri, tanto che se ne avevano poponi ed erbaggi meravigliosi"; e secondo Umberto Zanotti Bianco, (La Basilicata, Roma, 1926, pp.39-40) il cimitero di Montepeloso serviva da orto ancora nel 1889.
A proposito di funerali, è significativa la “Circolare circa la benedizione dei cadaveri poveri”, del 1840 (in Archivio vescovile di Montepeloso-Irsina, n. 279 del catalogo), con la quale le autorità costituite avevano dovuto richiamare piuttosto energicamente il clero di Montepeloso che si rifiutava di benedire i cadaveri dei poveri perché i loro eredi non potevano pagare.




Tratto dal libro di 


Michelino Dilillo 





IRSINA 
credenze, usanze, tradizioni montepelosane




lunedì 22 ottobre 2018

CULTURA POPOLARE E VITA PAESANA di Michelino Dilillo - prima puntata


Montepeloso - Panorama 
Per trattare di cultura popolare occorre affrontare due problemi: uno di sostanza e uno di metodo.
Innanzi tutto, cioè, bisogna chiedersi se esiste una cultura popolare e se essa ha una propria autonomia ed una sua originalità.
Se per cultura, infatti, intendiamo conoscenza, scibile, dottrina, scienza, è chiaro che essa non sopporta partizione, è un tutt'uno organico, originale e universale, valevole per ogni popolo e a tutte le latitudini.
Se per cultura, invece, intendiamo, come mi sembra più logico e più vicino alla realtà, mentalità, atteggiamenti e comportamenti, modi di essere e di vivere di un popolo, di un aggregato umano, modi, quindi, di rapportarsi a persone e a cose, allora è legittimo parlare di cultura popolare, di cultura, cioè del popolo, intendendo questo come concetto diverso da quello di popolazione in quanto non enuclea indifferentemente tutti gli abitanti di un luogo, ma soltanto coloro che, pur subendo per certi versi l'egemonia intellettuale dei ceti dominanti, per così dire dotti, sviluppano, tuttavia, una loro originale visione della vita, del lavoro, dei rapporti sociali spesso in antagonismo, direi necessariamente antagonistica a quella del gruppo dominante.
Originalità che trova riscontro e supporto nella diversità della loro mentalità e dei loro interessi, del loro rapportarsi, appunto, alle persone, agli altri ceti e alle cose.
Cultura popolare, quindi, in quanto cultura del popolo, sorta spontaneamente e originalmente dal popolo stesso.
Di qui il problema del metodo, perché vi sono due modi di avvicinarsi alla cultura popolare.
L'uno consiste nello studiare dall'alto, dall'esterno, l'aggregato umano che abbiamo definito popolo, con la mentalità colta, o, per meglio dire, dotta, in certo qual modo con la lente, quasi come l'entomologo osserva e studia gli insetti. In questo modo si ribadisce la subalternità del popolo e della sua cultura.
L'altro, invece, consiste nel calarsi dentro, nel vivere la vita del popolo, nel parteggiare, insomma, per capire i significati che il popolo attribuisce alle sue stesse elaborazioni.
Ne consegue che la cultura popolare, come del resto ogni altra cultura, è sempre parziale: nel senso di parteggiare, che si è detto, e nel senso che essa è, in ultima analisi, condizionata dall'evolvere della situazione del gruppo sociale di cui fa parte ed è espressione, subendo, in questo modo, l'influenza della cultura dotta dominante e adeguandosi, di volta in volta, ad essa.
il vicinato
La cultura popolare, infine, quando, come si è detto, è espressione genuina del popolo e non prodotta appositamente per il popolo, si esprime sempre in dialetto ed è tramandata oralmente attraverso i fatti: favole, leggende, racconti; e i proverbi, condensato di saggezza, frutto di osservazioni secolari e di macerati elaborazioni di esperienze vissute dai singoli e dal gruppo.
Il rapporto dialetto-lingua, in questo contesto, è decisivo: il dialetto esprime necessariamente un orizzonte di esperienze, di riflessioni e di elaborazioni più limitato perché più ristretto è il gruppo sociale che lo utilizza; la lingua, al contrario, per essere il mezzo di comunicazione di una popolazione più numerosa, in un territorio più vasto, può attingere ad esperienze più approfondite ed avere quindi moduli espressivi più sciolti e duttili, più compiuti, sottili e pertinenti.
Ma diffondendosi la lingua, estendendo il suo raggio di influenza, penetrando essa nei luoghi più remoti e tra i gruppi sociali più ristretti, uccide il dialetto e afferma la prevalenza anche idiomatica dei ceti dominanti, dando luogo, capillarmente, a quel fenomeno che si definisce acculturazione.
In tali condizioni si esaurisce, si isterilisce anche la cultura popolare, mescolandosi e suddividendosi il popolo stesso in ceti e gruppi sociali con interessi e modi di vivere più differenziati e frammentati.
L'egemonia dei gruppi dominanti, così, si fa più stringente e totalizzante.
(1 - Continua)


CULTURA POPOLARE E VITA PAESANA
di Michelino Dilillo
Estratto dal volume
«Tradizioni popolari»
Atti 1° Congresso Internazionale delle Tradizioni Popolari
Metaponto Lido 23-24 maggio 1986