Montepeloso
Tradizioni, storia, curiosità, immagini, lingua.

domenica 23 dicembre 2018

Natale nelle tradizioni Montepelosane fra '800 e '900


Qualche giorno prima di Natale le donne fanno i pèttl, pasta lievitata fritta nell’olio a forma di ciambelle.
Fare le pèttole è un rito familiare. Tutta la famiglia, tranne gli uomini, si raccoglie, di sera, attorno alla mamma che modella la pasta in larghi anelli irregolari e la depone nella strascina o padella in cui frigge l’olio da cui la ritrae quando è rosolata e sembra dorata. C’è una specie di divisione del lavoro, quando più donne partecipano alla preparazione, per cui il ritmo è serrato, chi mette continuamente pèttole crude, chi le volta nella padella, chi le ritrae fritte, con certi forchettoni di legno fabbricati dai pastori. I bambini osservano, con ansia appena trattenuta e l’acquolina in bocca, le furiose bollicine dell’olio che frigge, l’anello che si restringe mentre i bordi si gonfiano e si ingrossano, l’indorarsi della pèttola che è pronta per essere presa con il forchettone, per far scorrere l’olio ed essere deposta nel piatto. Ma le prime pèttole non rimangono lì, in attesa, per molto tempo, perché i bambini le afferrano, si scottano, se le passano dall’una all’altra mano, le divorano compatibilmente con la necessità di non ustionarsi la bocca e la lingua. Poi, quando sono satolli, quando il loro quagghiaridd , il piccolo stomaco da agnellini è pieno, i bambini cascano sulle sedie o per terra, con i pugni chiusi, addormentati.
Allora le donne possono, dopo averli sistemati nei letti, lavorare con più ordine e sollecitudine, senza intralci.
È severamente proibito bere acqua durante la cerimonia delle pettole, sennò s’ hard l’ugghi, causerebbe cioè, secondo la credenza, un consumo eccessivo di olio. Chi proprio non può fare a meno di bere, e l’olio che frigge e il fumo della frittura che riempie la casa danno molta arsura, deve uscire dalla stanza, meglio se va a bere nella casa della vicina.
In una delle notti precedenti la vigilia di Natale, o anche più notti di seguito, si svolgeva un’altra manifestazione, esterna, questa volta, per le vie dell’abitato. Ne erano protagonisti i fornai, i quali giravano per il paese, in corteo, facendo gran fracasso di timpani e di marmitte per incitare, anch’essi con una filastrocca cantilenata, le massaie a fare le pettole:
Alzatevi, mogli di cafoni; fate i pettoloni;
alzatevi, mogli di artisti,
mettete le pèttole nei canistri.
Insieme alle pèttole, si fanno anche i crostoli, specie di gnocchi di pasta dura non lievitata arrotolati col pollice sulla superficie di un canestro e poi fritti nell’olio, come le pèttole, o cotti al forno; e le casatedde, lasagne piegate e chiuse ad intervalli, in modo da formare degli incavi, indi attorcigliate a spirale. La lasagna è stata tagliata con uno strumento adatto che la lascia arricciata ai bordi. Le casatèdde, successivamente, vengono fritte nell'olio o cotte al forno, e poi condite, e gli incavi se ne riempiono p’ u mircùtt (il cotto di fichi) o con lo zucchero.
La vigilia è il giorno del grande digiuno, interrotto, la sera, dalla zuppa di baccalà o dalla minestra di pasta e fagioli. I fasòl sont’ a carn’ d’i pauridd, dice il proverbio, cioè i fagioli sono la carne dei poveri. Chi può, naturalmente, mangia il pesce, e chi è ricco l’anguilla e il capitone.
Subito dopo la cena inizia la grande veglia, la lunga notte di Natale, allorché si raccontano le fiabe che non finiscono mai, si gioca a tombola, all’oca, a carte. In qualunque tempo dell’anno, a chi racconta frottole o la piglia per le lunghe, si usa dire: stupatill pa nott u Natèl. La notte di Natale, infatti, è considerata la più lunga dell’anno e il giorno di Natale, conseguentemente, il più corto ma anche quello in cui la giornata comincia a crescere. A capodanno la giornata è già cresciuta di un passo di gallina.
I ragazzi giocano alla v’rròzz’l’ nel modo seguente: si pone una monetina in equilibrio su di un ditale, per terra, ai piedi di un piano inclinato costituito da una tavola del pane o del ròccolo (focaccia). A turno i ragazzi fanno rotolare una noce per ciascuno, con obiettivo il ditale e la monetina. Chi, con la sua noce, riesce a colpire il ditale e a far cadere la moneta, vince la partita e si appropria di tutte le noci che sono per terra e che, prima che il bersaglio fosse stato colpito, avevano mancato il colpo.

Una credenza vieta assolutamente ai coniugi di avere rapporti sessuali nella notte di Natale, a pena di avere figli storpi e malaticci. Più particolarmente i figli concepiti in quell’occasione sarebbero certamente dei lupi mannari (i lup’nèr’).
Per le feste di Natale si usava, anticamente riunirsi due o più famiglie, di parenti o amici o compari, le quali fornivano ciascuna la propria parte di leccornie, di cibarie e di vino. La festa in comune cominciava la sera della vigilia e si concludeva la sera di Santo Stefano.
Un canto paesano, ormai dimenticato dice:
Eh la nott’a d’u natèl’
fôui na fest’ a pr’nc’pèl’,
p’ nu vôuv’ e n’as’nèll’
a Madònn’ e San G’sèpp’ …
In questo canto, su di un motivo di cantilena che sembra ricordare quello di tu scendi dalle stelle, è inserita una battuta, quando ricorre il verso:
quant’ iè bell’ sta pur’r’tè,
(quant’è bella la povertà) che si interrompe con l’espressione: 
Sint’ sint’?
e che indica la meraviglia e la compiacenza del povero nel sentire rivalutata evangelicamente la sua condizione. Ma il più delle volte la battuta suonava ironica, malignamente malinconica, come per dire: A li fiss’, cioè: ditelo ai fessi, ed era accompagnata da un sospiro di rassegnazione.  

Un complemento essenziale alla ricorrenza natalizia era la prima neve, affettuosamente chiamata: a minènn (la bambina). Il primo pensiero che tutti avevano, specialmente la mattina di Santo Stefano - perché doveva nevicare la sera di Natale mentre la sera della vigilia avrebbe dato fastidio - era di correre, appena svegli, alla porta e alle finestre ed aprire gli scuri per controllare se fosse caduta la neve. La mancanza di neve provocava, specie nei ragazzi, profonda delusione. Ma di breve durata. Natale è Natale. Non si può rischiare, con tristezze e malinconie, di non gustare le cose buone che la mamma ha preparato.
Anche per i grandi, tuttavia, la neve è ben accetta oltre che desiderata a Natale. La semina è conclusa, il gelo o i topi, secondo i casi, possono rovinare, sin dall’inizio, l’opera compiuta. Una buona nevicata proprio ci vuole. Non per niente il proverbio avverte che sotto la neve c’è il pane e sotto l’acqua c’è la fame. Veramente la diretta esperienza paesana ha portato ad altre conclusioni: chi ebbe pane morì, e chi ebbe fuoco si salvò. Ma a Natale ci si può permettere il lusso di accettare di buon grado anche la neve.

Ai giorni nostri in ogni casa, si può dire, c’è, a Natale, il presepio o l’albero di Natale più diffusamente il primo, però; a volte ci sono entrambi. Ai primi del ‘900 invece, il presepio si allestiva soltanto in alcune chiese, e in alcune case private. In chiesa i presepi erano sempre gli stessi, mentre quelli allestiti nelle case private variavano non solo tra di loro, ma non si ripetevano nemmeno di anno in anno perché obbedivano ad esigenze di fantasia e di gusto di coloro che li preparavano. Perciò si creava un’aspettativa nella popolazione e la gente era curiosa di visitarli. Non c’è stata mai l’usanza di fare il giro di visite per i presepi come per i sepolcri, le fanòie, i Santi Rocc’. E tuttavia si faceva di tutto per essere ammessi a visitarli. Anzi, gli stessi privati erano lusingati che il proprio presepio fosse apprezzato e trovato più bello di un altro, e perciò ammettevano volentieri, generalmente, i visitatori. Le visite ai presepi si facevano dopo Natale e prima dell’epifania. La sera dell’epifania le feste natalizie si concludevano proprio con lo smaltimento del presepio, i cui rami, considerati benedetti, si portavano in campagna, specialmente nelle vigne, come accadeva per i sepolcri. La mattina del sei gennaio c’è anche l’ultima cerimonia religiosa che si riferisce al Natale: il battesimo di Gesù bambino. Era famosa, un tempo, quella che si svolgeva nella chiesa di San Francesco, nella quale si riversava, alle cinque del mattino, quasi tutta la popolazione, dopo che si erano prenotati i posti sin dal giorno precedente portandovi le sedie da casa o affittandole dalla sagrestana. La cerimonia consisteva in un normale rito di battesimo, ma svolto in forma solenne e reso più vivo ed attraente dai canti, dall’incenso, dall’organo. Era uno spettacolo, insomma. Alla fine della cerimonia l’officiante passava tra le file dei fedeli, con il bambinello in braccio, perché tutti lo potessero baciare.
Con il Natale si chiude l’anno, ma non si esauriscono le tradizioni, le usanze, le credenze montepelosane, ormai seguite solo da pochissime persone anziane e in via d’essere da tutti dimenticate. Altri pregiudizi, altre usanze, altre credenze, altre tradizioni sostituiscono le vecchie e la vita continua.
Tratto dal libro di 



Michelino Dilillo 






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sabato 1 dicembre 2018

Irsina - Natale, usanze e credenze nella tradizione montepelosana

foto di Tonino Catena
Per il venticinque novembre, intanto, Santa Caterina, la neve è sulla spina.
Il Natale si avvicina e tutta l’attenzione del paese si rivolge a quella ricorrenza.
Le usanze e le credenze paesane sul Natale sono molte, la maggior parte ancora in vigore.
Esse si aggiungono a quelle cattoliche, ma non vi si mescolano mai, rimanendone distinte e separate. Per esempio, in occasione di terremoti le donne si chiedono quando è nato u bamb’nidd?, nella convinzione che un pronto ricordo del giorno della settimana in cui l’evento si verificò, basti a far cessare la catastrofe. Ma essa convinzione non ha alcuna relazione con i riti religiosi.

L’attesa della ricorrenza si fa tanto ansiosa che tutto il mese di dicembre è detto Natale.
È stata quest’attesa, forse, che ha dato origine ad un’osservazione del tempo ormai codificata, che riguarda i giorni che vanno dal primo al venticinque di dicembre, da cui si traggono auspici per tutto l’anno nuovo. Secondo la tradizione dei calèn’r’, il primo, il tredici e il venticinque dicembre rappresentano Natale cioè l’ultimo mese dell’anno. Dal due al dodici si susseguono tutti gli altri mesi, da gennaio a novembre, Dal quattordici al ventiquattro si torna indietro, cioè si ripetono i mesi dell’anno, ma all’inverso, da novembre a gennaio. Se queste giornate, specialmente quelle in cui i mesi sono contati all’inverso, sono belle, anche i corrispondenti mesi dell’anno avranno buon andamento. Se, viceversa, si avrà cattivo tempo, anche l’andamento stagionale dell’anno nuovo lascerà a desiderare. Il giudizio, inutile dirlo, è in relazione alle semine e al raccolto.
foto di Tonino Catena

Pietre miliari di questa attesa sono la ricorrenza dell’Immacolata, il giorno otto, e Santa Lucia, il tredici. Alla vigilia della Immacolata pure i pesci del mare fanno digiuno, e vi è quasi una prova generale della vigilia del Natale. Santa Lucia, invece, si festeggia con i falò, le fanòie, a sera. Per qualche settimana, ragazzi e giovanetti si danno da fare per la campagna, in cerca di legna da ardere. Negli ultimi giorni la chiedono anche di casa in casa. Il pomeriggio del tredici approntano nei larghi le cataste di legna raccolta. Sulla cima delle pire pongono immagini sacre infilate a rami e a canne. Poi accendono il fuoco.

Vi era gara, anticamente, tra i vari quartieri e larghiri del paese, per la fanòia più alta e più grossa. Alla gara partecipavano anche gli adulti, che procuravano legna, la ordinavano in pira, incoraggiavano e assistevano i ragazzi nel loro darsi da fare. A sera tardi, quando il falò si era trasformato in un grande braciere, si ballava e cantavano stornelli paesani tutt’intorno, al suono di una fisarmonica a quattro bassi o di strumenti ancor più elementari e primitivi. Ho conosciuto un vecchietto, soprannominato Stròsc’, che era famoso per l’animazione che portava nell’accompagnare con il suo larganetto le distrotte e gli stornelli che veniva cantando. Intanto si mangiava la cuccèia. I giovani saltavano in fila sul braciere ardente, sfoggiando abilità e bravura. I vecchi raccontavano favole o storie di briganti.

A Santa Lucia si ispira una filastrocca usata dai ragazzi quando volevano chiedere qualcosa da mangiare ad un compagno. Diceva:

Cuba-cuba Santa Lucèia,
damm’ na mosca d’m’ddèca;
e s’ non m’a uò dè,
Santa Lucèia t’a fè c’chè.

Questa è la cupacupa di Santa Lucia, tu dammi un morsettino di mollica, grande quanto una mosca; e se non me lo vuoi dare, Santa Lucia ti punirà accecandoti.

Capitava spesso che i ragazzi chiedessero ai loro compagni qualche cosa da mangiare. Per ottenerla ricorrevano a tutti i trucchi e pretesti, com’è vero che la necessità aguzza l’ingegno. Una storiella, per esempio, dice che due compagni stanno in chiesa, ad una funzione religiosa. Uno di loro mangiucchia qualcosa ‘nd o pion, nel pugno, cioè di nascosto. L’altro se ne accorge e dice:
-          Che fai? Mangi il formaggio in chiesa, ma che vergogna! Lo dirò al prete
-          No, non gli dire niente
-          E tu damm n picc por a mem ca m stec citt.
E così siamo al ricatto vero e proprio. I ragazzi più grandicelli offrivano protezione ai più piccini, in cambio di una fetta di pane al giorno, o di altro, secondo i patti. Nei larghiri si faceva la comunedda, la comunella. Ogni ragazzo metteva a disposizione della compagnia quel che aveva di suo, spesso anche quello che riusciva o era indotto a rubare a casa. Poi si faceva una mangiata comune, appunto la comunedda a cui partecipava anche chi non aveva messo niente. Anzi, erano proprio costoro che la organizzavano.
L’usanza della comunedda è sparita del tutto ai nostri giorni fra i ragazzi. È rimasta quella della protezione che non si fonda più però, sul pagamento in cibarie.
Anche la comunedda aveva la sua filastrocca che cominciava così:

Cucia-cucia comunedda …

Tratto dal libro di 



Michelino Dilillo 





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