Montepeloso
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sabato 1 dicembre 2018

Irsina - Natale, usanze e credenze nella tradizione montepelosana

foto di Tonino Catena
Per il venticinque novembre, intanto, Santa Caterina, la neve è sulla spina.
Il Natale si avvicina e tutta l’attenzione del paese si rivolge a quella ricorrenza.
Le usanze e le credenze paesane sul Natale sono molte, la maggior parte ancora in vigore.
Esse si aggiungono a quelle cattoliche, ma non vi si mescolano mai, rimanendone distinte e separate. Per esempio, in occasione di terremoti le donne si chiedono quando è nato u bamb’nidd?, nella convinzione che un pronto ricordo del giorno della settimana in cui l’evento si verificò, basti a far cessare la catastrofe. Ma essa convinzione non ha alcuna relazione con i riti religiosi.

L’attesa della ricorrenza si fa tanto ansiosa che tutto il mese di dicembre è detto Natale.
È stata quest’attesa, forse, che ha dato origine ad un’osservazione del tempo ormai codificata, che riguarda i giorni che vanno dal primo al venticinque di dicembre, da cui si traggono auspici per tutto l’anno nuovo. Secondo la tradizione dei calèn’r’, il primo, il tredici e il venticinque dicembre rappresentano Natale cioè l’ultimo mese dell’anno. Dal due al dodici si susseguono tutti gli altri mesi, da gennaio a novembre, Dal quattordici al ventiquattro si torna indietro, cioè si ripetono i mesi dell’anno, ma all’inverso, da novembre a gennaio. Se queste giornate, specialmente quelle in cui i mesi sono contati all’inverso, sono belle, anche i corrispondenti mesi dell’anno avranno buon andamento. Se, viceversa, si avrà cattivo tempo, anche l’andamento stagionale dell’anno nuovo lascerà a desiderare. Il giudizio, inutile dirlo, è in relazione alle semine e al raccolto.
foto di Tonino Catena

Pietre miliari di questa attesa sono la ricorrenza dell’Immacolata, il giorno otto, e Santa Lucia, il tredici. Alla vigilia della Immacolata pure i pesci del mare fanno digiuno, e vi è quasi una prova generale della vigilia del Natale. Santa Lucia, invece, si festeggia con i falò, le fanòie, a sera. Per qualche settimana, ragazzi e giovanetti si danno da fare per la campagna, in cerca di legna da ardere. Negli ultimi giorni la chiedono anche di casa in casa. Il pomeriggio del tredici approntano nei larghi le cataste di legna raccolta. Sulla cima delle pire pongono immagini sacre infilate a rami e a canne. Poi accendono il fuoco.

Vi era gara, anticamente, tra i vari quartieri e larghiri del paese, per la fanòia più alta e più grossa. Alla gara partecipavano anche gli adulti, che procuravano legna, la ordinavano in pira, incoraggiavano e assistevano i ragazzi nel loro darsi da fare. A sera tardi, quando il falò si era trasformato in un grande braciere, si ballava e cantavano stornelli paesani tutt’intorno, al suono di una fisarmonica a quattro bassi o di strumenti ancor più elementari e primitivi. Ho conosciuto un vecchietto, soprannominato Stròsc’, che era famoso per l’animazione che portava nell’accompagnare con il suo larganetto le distrotte e gli stornelli che veniva cantando. Intanto si mangiava la cuccèia. I giovani saltavano in fila sul braciere ardente, sfoggiando abilità e bravura. I vecchi raccontavano favole o storie di briganti.

A Santa Lucia si ispira una filastrocca usata dai ragazzi quando volevano chiedere qualcosa da mangiare ad un compagno. Diceva:

Cuba-cuba Santa Lucèia,
damm’ na mosca d’m’ddèca;
e s’ non m’a uò dè,
Santa Lucèia t’a fè c’chè.

Questa è la cupacupa di Santa Lucia, tu dammi un morsettino di mollica, grande quanto una mosca; e se non me lo vuoi dare, Santa Lucia ti punirà accecandoti.

Capitava spesso che i ragazzi chiedessero ai loro compagni qualche cosa da mangiare. Per ottenerla ricorrevano a tutti i trucchi e pretesti, com’è vero che la necessità aguzza l’ingegno. Una storiella, per esempio, dice che due compagni stanno in chiesa, ad una funzione religiosa. Uno di loro mangiucchia qualcosa ‘nd o pion, nel pugno, cioè di nascosto. L’altro se ne accorge e dice:
-          Che fai? Mangi il formaggio in chiesa, ma che vergogna! Lo dirò al prete
-          No, non gli dire niente
-          E tu damm n picc por a mem ca m stec citt.
E così siamo al ricatto vero e proprio. I ragazzi più grandicelli offrivano protezione ai più piccini, in cambio di una fetta di pane al giorno, o di altro, secondo i patti. Nei larghiri si faceva la comunedda, la comunella. Ogni ragazzo metteva a disposizione della compagnia quel che aveva di suo, spesso anche quello che riusciva o era indotto a rubare a casa. Poi si faceva una mangiata comune, appunto la comunedda a cui partecipava anche chi non aveva messo niente. Anzi, erano proprio costoro che la organizzavano.
L’usanza della comunedda è sparita del tutto ai nostri giorni fra i ragazzi. È rimasta quella della protezione che non si fonda più però, sul pagamento in cibarie.
Anche la comunedda aveva la sua filastrocca che cominciava così:

Cucia-cucia comunedda …

Tratto dal libro di 



Michelino Dilillo 





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