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foto di Tonino Catena |
Il Natale si avvicina e tutta
l’attenzione del paese si rivolge a quella ricorrenza.
Le usanze e le credenze paesane
sul Natale sono molte, la maggior parte ancora in vigore.
Esse si aggiungono a quelle
cattoliche, ma non vi si mescolano mai, rimanendone distinte e separate. Per
esempio, in occasione di terremoti le donne si chiedono quando è nato u
bamb’nidd?, nella convinzione che un pronto ricordo del giorno della
settimana in cui l’evento si verificò, basti a far cessare la catastrofe. Ma
essa convinzione non ha alcuna relazione con i riti religiosi.
L’attesa della ricorrenza si
fa tanto ansiosa che tutto il mese di dicembre è detto Natale.
È stata quest’attesa, forse,
che ha dato origine ad un’osservazione del tempo ormai codificata, che riguarda
i giorni che vanno dal primo al venticinque di dicembre, da cui si traggono
auspici per tutto l’anno nuovo. Secondo la tradizione dei calèn’r’, il primo, il
tredici e il venticinque dicembre rappresentano Natale cioè l’ultimo mese
dell’anno. Dal due al dodici si susseguono tutti gli altri mesi, da gennaio a
novembre, Dal quattordici al ventiquattro si torna indietro, cioè si ripetono i
mesi dell’anno, ma all’inverso, da novembre a gennaio. Se queste giornate,
specialmente quelle in cui i mesi sono contati all’inverso, sono belle, anche i
corrispondenti mesi dell’anno avranno buon andamento. Se, viceversa, si avrà
cattivo tempo, anche l’andamento stagionale dell’anno nuovo lascerà a
desiderare. Il giudizio, inutile dirlo, è in relazione alle semine e al
raccolto.
Pietre miliari di questa
attesa sono la ricorrenza dell’Immacolata, il giorno otto, e Santa Lucia, il
tredici. Alla vigilia della Immacolata pure i pesci del mare fanno digiuno,
e vi è quasi una prova generale della vigilia del Natale. Santa Lucia, invece,
si festeggia con i falò, le fanòie, a sera. Per qualche
settimana, ragazzi e giovanetti si danno da fare per la campagna, in cerca di
legna da ardere. Negli ultimi giorni la chiedono anche di casa in casa. Il
pomeriggio del tredici approntano nei larghi le cataste di legna raccolta.
Sulla cima delle pire pongono immagini sacre infilate a rami e a canne. Poi
accendono il fuoco.
Vi era gara, anticamente, tra
i vari quartieri e larghiri del paese, per la fanòia più alta e più grossa. Alla
gara partecipavano anche gli adulti, che procuravano legna, la ordinavano in
pira, incoraggiavano e assistevano i ragazzi nel loro darsi da fare. A sera
tardi, quando il falò si era trasformato in un grande braciere, si ballava e
cantavano stornelli paesani tutt’intorno, al suono di una fisarmonica a quattro
bassi o di strumenti ancor più elementari e primitivi. Ho conosciuto un
vecchietto, soprannominato Stròsc’, che era famoso per
l’animazione che portava nell’accompagnare con il suo larganetto le distrotte
e gli stornelli che veniva cantando. Intanto si mangiava la cuccèia.
I giovani saltavano in fila sul braciere ardente, sfoggiando abilità e bravura.
I vecchi raccontavano favole o storie di briganti.
A Santa Lucia si ispira una
filastrocca usata dai ragazzi quando volevano chiedere qualcosa da mangiare ad
un compagno. Diceva:
Cuba-cuba Santa Lucèia,
damm’ na mosca d’m’ddèca;
e s’ non m’a uò dè,
Santa Lucèia t’a fè c’chè.
Questa è la cupacupa di Santa
Lucia, tu dammi un morsettino di mollica, grande quanto una mosca; e se non me
lo vuoi dare, Santa Lucia ti punirà accecandoti.
Capitava spesso che i ragazzi
chiedessero ai loro compagni qualche cosa da mangiare. Per ottenerla
ricorrevano a tutti i trucchi e pretesti, com’è vero che la necessità aguzza
l’ingegno. Una storiella, per esempio, dice che due compagni stanno in chiesa,
ad una funzione religiosa. Uno di loro mangiucchia qualcosa ‘nd o
pion, nel pugno, cioè di nascosto. L’altro se ne accorge e dice:
-
Che fai? Mangi il formaggio in chiesa, ma che
vergogna! Lo dirò al prete
-
No, non gli dire niente
-
E tu damm n picc por a mem ca m stec citt.
E così siamo al ricatto vero e
proprio. I ragazzi più grandicelli offrivano protezione ai più
piccini, in cambio di una fetta di pane al giorno, o di altro, secondo i patti.
Nei larghiri
si faceva la comunedda, la comunella. Ogni ragazzo metteva a disposizione
della compagnia quel che aveva di suo, spesso anche quello che riusciva o era
indotto a rubare a casa. Poi si faceva una mangiata comune, appunto la comunedda
a cui partecipava anche chi non aveva messo niente. Anzi, erano proprio costoro
che la organizzavano.
L’usanza della comunedda
è sparita del tutto ai nostri giorni fra i ragazzi. È rimasta quella della protezione
che non si fonda più però, sul pagamento in cibarie.
Anche la comunedda aveva la sua
filastrocca che cominciava così:
Cucia-cucia comunedda …
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