Irsina, 1965
Il culto dei morti si manifesta ancora in forma
tradizionale per quanto riguarda la reazione delle famiglie, parenti, amici e
conoscenti, al fatto luttuoso. La camera ardente si allestisce nella camera da
letto, che per molti è ancora l’unica stanza della casa. Il cadavere rimane
steso sul letto fino a poco prima dei funerali, quando è chiuso nella bara e messo
sulle sedie. Ti possano portare sulle sedie, e che
tu ti possa trovare sulla sedia sono i più gravi anatemi che si possono rivolgere
ad un nemico, appunto perché sulle sedie si dispongono le bare,
ed anche perché chi muore improvvisamente, per la strada o sul lavoro, sulla
sedia è trasportato a casa. Gli anatemi, quindi, sono augurio di morte,
e di morte improvvisa e disgrazia nel secondo caso.
Intorno al morto si dispongono le donne che avevano
più stretti legami col trapassato, la moglie, la madre, le figlie, le sorelle,
le quali sciolgono le trecce dei capelli aiutate da altre donne del parentado o
del vicinato, ed iniziano la cantilena del piangere il morto, raccontando la
vita del trapassato e tessendo il panegirico di lui. Gli uomini
rimangono appartati, e se l’abitazione dispone d’altro vano, addirittura
separati. Separatamente si ricevono le visite. Gli uomini ricevono i
maschi, le donne le femmine. Per questo l’uscio rimane spalancato per tutto il
tempo che il morto rimane in casa. La veglia funebre è fatta nella stessa
stanza e ad essa partecipano parenti, anche lontani, e soprattutto vicine di
casa.
Non c’è morto senza riso e non c’è sposa senza
pianto
dice il proverbio, perché la notte della veglia, per vincere il sonno si
comincia a poco a poco a rompere il silenzio che aleggia nella stanza, dopo che
le donne, stanche morte e gli occhi arrossati e gonfi, hanno smesso di
piangere. Si parla del più e del meno, del tempo e del raccolto, fra gli
uomini; della casa e dei figli, fra donne. Ma si finisce, invariabilmente, per
raccontare episodi che illustrano la verità delle varie credenze sulla morte e
sul preannuncio di lei.
Il cu-cu conta gli anni che ancora
rimangono da vivere.
Sentir battere chiodi, di notte, preconizza
l’inchiodatura di una bara del vicinato.
Il latrato lupigno dei cani, sempre di notte,
annuncia un ferale accadimento.
E via di questo passo, per ore e ore.
Gli ascoltatori si fanno nu pi’zzc cioè
rabbrividiscono, alle truci narrazioni. Ma il brivido rassomiglia molto a
quello che prova chi legge romanzi gialli e perciò non ci si stanca mai di
narrare e ascoltare quelle storielle lugubri, che scadono molto spesso nella
barzelletta e nella risata a stento trattenuta o sconvenientemente aperta.
La legge prescrive che passino almeno ventiquattro
ore dal momento del trapasso a quello della sepoltura. Fino ad una certa epoca,
chi moriva di notte o nella mattinata, era accompagnato al cimitero nel tardo
pomeriggio e depositato nell’apposita sala mortuaria in attesa che
trascorressero le prescritte ventiquattro ore per la inumazione. Ma negli anni
di guerra una salma fu profanata e derubata dei vestiti proprio nel cimitero.
Da allora le bare rimangono in casa per tutto il tempo prescritto. Solo i
ricchi, pagando una tariffa stabilita, portano il morto in chiesa la sera, e ve
lo lasciano su di un catafalco al centro della grande navata, fino al giorno
successivo.
Nell’immediato dopoguerra si sono avuti parecchi
funerali civili, come anche alcuni matrimoni. Ma poi i casi si sono diradati e
la tradizione ha avuto il sopravvento. Si trattava di vecchi socialisti,
anticlericali, i quali preferivano, dopo morti, essere accompagnati dalla
bandiera rossa anziché dalla zimarra del prete.
C’è
anche una storiella che illustra questo aspetto della vita paesana.
Racconta la leggenda che un sacerdote andando con i
colleghi a prendere un morto, ebbe modo, uscendo dall’abitazione del
defunto, di sgraffignare nu vicc,
cioè un tacchino e di ficcarselo sotto la cotta. A tratti però, da sotto la
veste nel movimento fuoriuscivano le scidde cioè le ali e la punta delle
zampe. L’altro prete che lo seguiva, perciò, fidato complice, lo avverte,
cantando in gregoriano sul motivo del Dies irae, di abbassare la cotta,
con la seguente strofetta in latino maccheronico o, se si preferisce, in
dialetto latinizzato:
Pàrne scille e stumparé;
vasci cotta, dominé.
La barzelletta denuncia palesemente la sua origine dotta,
non propriamente popolana. Resa in italiano, la strofetta dice: Si vedono le
ali e le zampe; abbassa la cotta, signore.
Anche il problema del lutto è risolto secondo la
tradizione.
Davanti alla casa dove c’è stato un decesso, rimane
uno striscione nero fino a che il vento lo strappi ed il sole lo scolori. Ma
non tutti espongono quella lugubre bandiera. Anzi, si può dire che la
diffusione di quell’usanza tra gli strati medi della popolazione sia piuttosto
recente. Anticamente solo i nobili e i ricchi la osservavano. Tutti, però,
osservano l’uso di vestirsi a lutto, sia pure con diverse gradazioni.
Il lutto stretto, per esempio, quando si tratta
della morte di un familiare molto prossimo (marito, moglie, padre, figlio),
comporta l’abito completamente nero, per almeno tre anni, la camicia con il «pettino» nero, e comunque sempre
abbottonata, la testa coperta, in qualunque stagione, con il cappello o la «coppola» per gli uomini; con il «panno» o lo scialle o almeno la
veletta per le donne.
Per gli uomini, fino ad epoca relativamente recente,
bastavano il bracciale, la cravatta e il frontone del cappello neri. Le donne,
anticamente, e fino ad una quarantina di anni fa, portavano tutte il panno:
si tratta di un tessuto di panno nero (in alcuni casi, come ricordo con molta
sicurezza e precisione, anche marrone, forse quello delle donne più povere), di
forma quadrata, che, piegato in due lungo la diagonale, serviva a coprire la
testa e le spalle delle nostre donne. Poi la moda introdusse, lo scialle
e successivamente la veletta che si poteva tenere anche
soltanto sulle spalle, lasciando la testa scoperta. Ma in caso di lutto la
testa doveva essere interamente coperta, come quando si entrava in chiesa, e
con essa buona parte del viso. Ora le donne hanno abbandonato completamente
quei tradizionali abbigliamenti. In caso di lutto si limitano ai vestiti o al
soprabito e alle calze nere.
Se la persona morta era parente non tanto stretto
(suocero, cognato, zio, eccetera), il lutto è stretto, ma dura di meno, un anno
è il minimo; e così, gradatamente, diminuisce di intensità e di durata secondo
l’allungarsi della parentela. Le madri e le mogli anziane praticamente non
smettono più il lutto dopo la disgrazia che le ha privata dei loro cari. Nel
caso della morte di bambini, invece, il lutto non si mette per niente. Gli
uomini, in ogni caso di lutto, devono osservare altre norme, che comportano il
non radersi per almeno una settimana o per almeno tre giorni secondo i casi, e
il divieto di fumare almeno per quel giorno, fino ai funerali, e quando si
ricevono le visite.
Ai componenti il nucleo familiare a cui apparteneva
la persona defunta, familiari o amici preparavano, a turno, la colazione, il
pranzo e la cena, anche per una settimana, se il lutto era molto stretto.
Questi pranzi funebri sono detti cunzi. Con tale termine si denomina
anche ogni operazione di torchiatura. E forse esiste un nesso tra le due
azioni, visto che le gocce di vino che colano dal torchio durante le stringitura
della vinaccia e che aumentano progressivamente e diventano rivoli, si dicono lacrime.
Tratto dal libro di
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