Per il 24 giugno,
natività di San Giovanni Battista, si mettevano in movimento tutte le ragazze
da marito, timorose e speranzose nello stesso tempo. La sera del 23 esse
esponevano, al sereno fresco della notte, dei fiori di cardo che da noi si
chiamano appunto i San Giuwann, dopo averli esposti ad una fiamma fino a
bruciacchiarli.
La mattina successiva le
ragazze accorrono al balcone o alla finestra, piene d’ansia, a leggervi il
vaticinio. Se il cardo sarà appassito la signorinella si attenderà una ben
triste sorte perché non troverà facilmente marito. Se, invece, l’umidità della notte
ha ravvivato il cardo, l’avvenire della ragazza è pieno di speranza e un
fidanzamento è in vista. Il risultato, tuttavia, non è mai stato definitivo da
non lasciare almeno una speranza o da non suscitare qualche perplessità. Tutto
dipende, cioè, dal grado di bruciacchiatura del san Giuwann, il quale si
riprenderà nella misura che la fiamma non ne ha ustionato gravemente il cormo.
E tutto, quindi, ritorna come prima. Le ragazze sperano, le ragazze temono. Ma
a quell’età si spera più di quanto si tema.
A luglio si
carra e si pesa cioè si trasportano i covoni sull’aia e si trebbia. Si
carrava con i traini o a schiena, cioè a dorso di mulo o di asino. Per rendere
possibile il carico di un buon numero di covoni sul dorso di una bestia, si
usavano certi arnesi detti cònole, gli scheletri di due
semicilindri fatti di tamerici o di altri fusti flessibili, che si appendevano
orizzontalmente ai due fianchi dell’animale, a mo’ di cesti, e che si colmavano
di covoni.
P’i
conl e p’a loun
Vann
d trendòn
Con le cònole e con la
luna vanno di trentuno si diceva di certuni, ai quali, in altre
circostanze si chiedeva:
tu ca nan fél e nan tiss,
sti gnumr gruss d’addo i
hiss?
Tu che non fili e non tessi, questi gomitoli grossi d’onde li esci?
Si pesava con i muli, e per
vincere la noia e il caldo, ma anche per incitare le bestie a girare, con gli
occhi bendati, continuamente intorno al contadino che stando fermo in mezzo
all’aia, teneva le redini, questi cantava lunghe nenie in cui si parlava di bella
lontana, di tradimento, ma anche di storie appassionate o ironiche o
salaci, ispirate sempre a fatti paesani realmente accaduti e interrotte ogni
tanto dal grido: - ihscé - di incitamento
alle bestie, che si chiamavano Bellina o Colonna o anche Caterina, Ciccillo,
Minguccio, come fossero persone.
Le spigolatrici pesavano
nell’abitato, con le mazze o con le cinghie e ventilavano con un
crivello. C’erano donne che riuscivano a racimolare così, l’annata del grano
occorrente alla famiglia. Anche le donne cantavano qualche volta, ma non gli
stessi canti degli uomini. Questi cantavano, perché nell’aia svolgevano mansioni
d’attesa, fermi al centro della battitura. Ma come potevano cantare le
donne, chine continuamente in cerca della spiga caduta, oppure, inginocchiate a
menare grandi colpi di mazza per battere il grano? La loro fatica, per quelle
che spigolavano, era molto più improba di quella degli uomini.
Ecco alcune strofe di canti
dell’aia, in cui la critica sociale e di costume, ma specialmente il
sottobosco della vita paesana sono evidenti:
U muntagnùl’ d’ss’:
c’t’n’ i sold’ semp’
cont’;
c’t’n’ a m’gghi’ra boun’
semp’ cant’.
una bella e fedele testimonianza di un tempo che è ormai storia, e come storia andrebbe conservata. Grazie ancora al carissimo indimenticabile Michelino che dedicò le sue attenzioni a queste tradizioni.
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