Montepeloso
Tradizioni, storia, curiosità, immagini, lingua.

giovedì 4 marzo 2021

Le campane - Religiosità popolare e pensiero magico a Montepeloso fra Ottocento e Novecento – 4^ puntata


Le campane delle chiese di Irsina avevano un particolare rilievo nella vita della chiesa e della città.

La Cattedrale ha la campana grande che suona a gloria in occasione di feste e di cerimonie solenni, a mortone per funerali e per riti funebri in genere; quella di Sant’Eufemia, la campanella che serve nella normalità per chiamare i fedeli a messa o ad altre ordinarie funzioni religiose.

 

La campana di San Francesco, nella chiesa omonima, dove si venera anche Sant’Antonio da Padova, suonava, su richiesta dei fedeli, a pagamento, in occasione di nascite, grazie ricevute, lieti eventi in genere. Il suo rintocco, in questi casi, è breve, ripetuto, sonorissimo. È detto i’ ntinn’a Sant’Antonj.

Qualche volta, capitava anche, sono stati fatti suonare i’ ntinn’, i rintocchi, per festeggiare come grazia ricevuta la morte di un nemico molto odiato.

Chi suonava i’ ntinn’, fino a non molti anni fa, era una donna che fungeva da sacrestana, soprannominata Mezzanotte. Ella non era tenuta a chiedere per quali motivi si facessero suonare i’ ntinn’ a Sant’Antonj, né era tenuto a dare spiegazioni di sorta il postulante. Anche le campane di Sant’Eufemia che producono per l’occasione, un suono argentino e tintinnante, sono messe in funzione all’avvicinarsi di temporali, ché esse avrebbero il potere, sempre a detta dei fedeli di fermare il nembo che si avvicina e di stornarlo dall’abitato e dal territorio di Montepeloso. 

tratto dal libro di 







Michelino Dilillo 






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Religiosità popolare e pensiero magico a Montepeloso fra Ottocento e Novecento – 3^ puntata

Ecco una storia vera che si raccontava a Irsina ai primi degli anni 30 del Novecento. Una storia di miracolo e di guarigione, di paura della morte e di speranza. 

Un ragazzo stava male, era moribondo, u mid’ch l’er l’c’nzièt (il medico lo aveva licenziato, cioè lo aveva dichiarato spacciato). 

La notte tutti vegliavano, in casa, in attesa del trapasso ritenuto imminente. Il padre e la madre al capezzale del morente, in lacrime. 

Le sorelle più grandi poco distanti, attorno ad un tavolo illuminato da una luce bassa, una che preparava il costumino alla marinara, messo appena una volta, che aveva bisogno di essere stirato; l’altra che lucidava le scarpette del ragazzo, anch’esse nuove. 

E’ necessario che i morti siano vestiti decentemente, quando si avviano alla loro dimora. Con le ragazze stava una vicina di casa, che si sforzava di consolarle come meglio poteva e sapeva. Ma quelle non si rassegnavano. Piangevano, e ricordavano il fratellino come fosse già morto. Una scarpa sfuggì di mano a chi la lucidava. 

La vicina ne trasse un buon auspicio. Poco dopo anche alla sorella più grande successe qualcosa. Una bretella del costume si spezzò. La vicina di casa ne trasse un nuovo auspicio di augurio. Il piccolo non sarebbe morto. Intorno al letto, intanto, nella penombra, dove il malato si agitava e delirava, in preda a febbre altissima, la mamma fu presa irresistibilmente dal sonno, che invano cercò di scacciare, e si ritrovò, sola, in una cappella buia, al centro della quale, attorno ad un catafalco, si aggiravano cinque o sei vecchine, con un lumino ciascuna in mano, chiuse il viso nel tradizionale panno, le quali mormoravano qualcosa con devozione. La mamma smaniava, nel tentativo di capire quel che dicessero le vecchine, insistendo perché pregassero per il suo figliuolo. Ma le vecchie non se ne davano per inteso. Solo una di loro si rivolse alla mamma, il volto austero e trasognato, le mani giunte ad indicare varie direzioni, la quale disse:  

- dè ha riusciòt, dè ha riusciòt,, dè ha riusciòt; t’a rièsc e t’a rièsc!

(Là ci è riuscito, là ci è riuscito, là ci è riuscito; ti riuscirà, e ti riuscirà).

Incoraggiata da queste parole, la madre risolutamente si mescolò alle ombre, e finalmente riuscì a capire la loro preghiera:  

- Spird sand d’a Grazj, p’car’tèt, a cioss fighhj raccumannèt.

(Spirito Santo di Grazia facci la grazia, per carità, a questo figlio raccomandato).

Proprio in quel momento la madre fu svegliata dal marito perché modificazioni sostanziali si stavano verificando nello stato del piccolo malato. Un sudore abbondante lo aveva inondato. Fu necessario cambiargli tutta la biancheria.

- E’ il sudore della morte -  pensò con raccapriccio la mamma.

- E’ la fine - balenò all’improvviso nella mente del padre.

Ma il bambino era sfebbrato, hera turnèt da port u cambsand (era tornato dalla porta del cimitero). La mattina successiva il medico passando per il consueto giro di visite, chiese alle vicine come stesse il malato certo della risposta ferale. Ma seppe che stava meglio, e di persona poté constatare la strana, miracolosa guarigione del bambino.

(le illustrazioni sono due dipinti e una lampada votiva custoditi nella chiesa del Purgatorio)


tratto dal libro di 







Michelino Dilillo 






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lunedì 2 dicembre 2019

Religiosità popolare e pensiero magico a Montepeloso fra Ottocento e Novecento – 2^ puntata


L’Irsinese ha sempre creduto fermamente negli spiriti. Secondo questa credenza, le anime dei morti per disgrazia o per omicidio (nel caso dello Scazzariddo perché morto senza essere stato battezzato), continuano ad aggirarsi per il mondo e a presentarsi ai vivi, specialmente nel luogo dove è avvenuta la dipartita o nelle immediate vicinanze. Il richiamo alla leggenda di Palinuro è evidente. Ma anche in altri tempi, e non sempre a chiacchierare tranquillamente o a chiedere la venal prece. E neppure a fare opere di bene. Da ragazzo ho sentito spesso parlare di quel vetturale caduto dal traino sulla via di Gravina e rimasto schiacciato sotto le ruote del suo mezzo. La sua anima, anzi, il suo spirito, appariva di notte, e a volte anche di giorno se il luogo era deserto, per indurre in tentazione il malcapitato viandante solitario, specialmente se vetturale anche lui, e portarselo in sua compagnia all’altro mondo. Erano i tempi in cui ancora non erano comparsi dalle nostre parti i mezzi a locomozione meccanica, quando tutte le comunicazioni con i paesi vicini e i tragitti per le nostre campagne erano assicurati, oltre che dal classico cavallo di San Francesco, dagli asini, dai muli e dai traini. Lo stesso servizio postale era assicurato dalla carrozza con cui cominciò a rendersi nota, nel nostro paese, la famiglia dei Capobianco, dei Prospero, come fu soprannominata dal nome del primo esercente. Ricordo ancora, come mi si rizzavano i capelli alla descrizione minuta, colorita, agghiacciante e raccapricciante dei due fratelli annegati nel Bradano che apparivano, torvi in viso e lordi di fanghiglia, in una nuvola di sassi e di vento, a ciel sereno, sulla via, nientemeno, del Santuario di San Michele Arcangelo, nel Gargano, meta di pellegrinaggio di non poche persone di Irsina, a quei tempi, che vi si recavano in carovane di traini, cantando inni religiosi, distrotte, allegri e spesso sapidi stornelli paesani, alternati alla recitazione di lunghe e monotone corone di rosario. I vecchi raccontano ancora con timore superstizioso la mala sorte toccata a quel tale che si avventurò, a mezzanotte in punto, a passare, solo, davanti al cimitero. Fatto segno all’attenzione malevola degli spiriti dei trapassati, egli fu preso da tanta paura che, abbandonata la mula che aveva seco, gambe in spalla, si affrettò verso il paese con tanta lena che a casa dovette mettersi a letto con polmonite fulminante, morendone senza misericordia la mattina successiva.
La Portarenacea da cui si entra in paese venendo dal cimitero è famosa per il fresco e per le polmoniti che offre a chi vi arrivi e vi transiti, trafelato e accaldato per la dura salita che ha dovuto superare.

C’è un episodio abbastanza recente, del resto, che risale agli anni ’50, e che, per la larga risonanza che ebbe tra la popolazione, è indicativo dello stato e della vitalità di certe credenze. Parlo dell’episodio di cui fu protagonista quel giovanotto che credette di vedere, sul ponte del macello vecchio, alcuni spiriti.
Da questo episodio sorse una leggenda nuova su un vecchio ceppo. A circa cinquecento metri dall’abitato, sulla nazionale che mena a Tolve e a Potenza, vi è un ponte nelle immediate vicinanze del quale sorgeva, fino al settembre del 1943, uno stabile in cui era allogato il pubblico macello. Nella notte tra il 21 e il 22 settembre di quell’anno, una pattuglia di guastatori tedeschi in ritirata fece saltare il ponte. La mina distrusse anche il macello, che qualche anno dopo si ebbe un nuovo locale appositamente costruito in altra parte del paese. Il ponte, tuttavia, ricostruito nel 1944-45, ed il fosso che vi scorre sotto, continuano ad essere detti, ormai anche ufficialmente, ponte e fosso macello. Ebbene, su quel ponte, se non sbaglio nel 1935, successe una disgrazia che per molti anni terrorizzò grandi e piccini. Un ragazzo che montava una delle prime biciclette di Irsina, scendendo a forte velocità dalla parte dell’abitato, non imboccò in modo giusto la curva e batté contro la spalliera del ponte, volando via dal velocipede e finendo morto e sfracellato nel burrone sottostante. La curva, non c’è che dire, era abbastanza pericolosa. Ma nel dire degli Irsinesi era lo spirito di quel giovinetto che attirava in incidenti mortali chi vi transitasse incautamente, specialmente di notte. E molte persone erano disposte a giurare e a dare particolari del loro fortunoso incontro con il fantasma, nelle tali e tali circostanze. Dopo il 1943, finalmente, sembrava che nessuno ricordasse più lo spirito del fosso macello. 
Ma ecco che, dopo il 1950, viene alla ribalta il giovanotto di cui ho parlato all’inizio, il quale asserì di aver visto il fantasma di un soldato tedesco, morto nello scoppio della mina, e il cui cadavere, a detta dello stesso spirito attendeva, fra i detriti del fosso, una più umana sepoltura. È inutile dire che mai un cadavere di un soldato tedesco, o i resti di un qualunque cadavere era stato trovato tra le macerie del ponte caduto, né, ovviamente, fu cercato e trovato dopo la rivelazione. Ma quel giovane insisteva nell’asserzione di aver parlato con il fantasma, di aver ricevuto, anzi, persino delle sigarette, manco a dirlo di marca tedesca, che naturalmente egli aveva fumato, e nelle sue fantastiche elucubrazioni smozzicava anche, egli che non conosceva nemmeno l’italiano, né aveva compiuto particolari studi, né mai era stato fuori di Irsina, frasi sedicenti tedesche. È certo però che questo episodio segna un po’ l’apice ed il declino anche, di tali credenze, perché, se è vero che in un primo momento tutta la popolazione, o quasi, credette al racconto fantasioso, ben presto nell’opinione pubblica sorsero correnti contrastanti di increduli e di ironici, disincantati burloni i quali suggerivano che il giovanotto non vivesse più in ozio e fosse mandato a lavorare. I familiari, ad ogni buon conto, ricorsero al prete e lo fecero esorcizzare quale indemoniato.
I morti disgraziati, dunque, continuano ad aggirarsi per questo mondo qualche volta con buone intenzioni, quasi sempre incattiviti dal loro stato e si presentano ai vivi sotto forma di fantasmi o di spiriti come si dice da noi. Ma non vi è nessuna possibilità, per loro, di ritornare fra i vivi. Una leggenda a questo proposito, narra che il custode del cimitero ha l’ordine di somministrare un cucchiaino di una sostanza dolcissima e velenosissima a chi, per qualsiasi motivo pensi di svegliarsi dal sonno eterno dei morti per tornare a vivere su questa terra, come qualmente accadde ad un ragazzo dodicenne la cui madre, per il dolore, impazzì fino a divorarsi le mani. La leggenda ricorda l’episodio del dantesco conte Ugolino anche se nel nostro caso la fame non c’entra per niente.


tratto dal libro di 






Michelino Dilillo 






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sabato 26 ottobre 2019

Religiosità popolare e pensiero magico a Montepeloso fra Ottocento e Novecento – 1^ puntata


Lo spirito religioso degli Irsinesi è stato, almeno nel XIX secolo, piuttosto scarso, malgrado che alla fine del Settecento il clero di Montepeloso contasse poco meno di un centinaio di membri tra abati, cappellani, diaconi, suddiaconi, chierici e novizi; oltre, s’intende, agli ospiti dei conventi, soppressi successivamente, nel 1809, e che allora erano quattro:
il Real Convento dei Minori Conventuali di San Francesco d’Assisi in Montepeloso sorto, secondo una tradizione, per opera dello stesso San Francesco, nell'attuale chiesa a lui intitolata, e nei locali annessi, al largo Plebiscito, nel 1228, ma costituito ufficialmente solo nel 1531;
il Cenobio di San Vito dell’Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino, allocato nell’attuale chiesa di Sant’Agostino e nei locali adiacenti la cui fondazione è fatta risalire al periodo che va dal 1531 al 1570;
il Convento dei Cappuccini, il quale, fondato nel 1570 in locali ormai scomparsi e siti in zona ancora detta dei Cappuccini, e soppresso nel 1809 rivisse per qualche anno, nel 1860, ad opera di pochi elementi, i quali lo abbandonarono ben presto segno evidente del cambiamento dei tempi;
convento S. Chiara
il Convento delle monache di Santa Chiara, fondato tra il 1655 e il 1674, come si desume da alcuni documenti, a che visse di vita stentata fino ai giorni nostri, si può dire, nei locali che furono abbattuti, tra il 1934 e il 1937, per costruirvi l’attuale edificio scolastico di piazza Garibaldi. Quest’ultimo convento non dovette essere proprio un modello di carità e di pietà religiosa se, come riferisce lo stesso Janora, molti inconvenienti vi si verificarono e furono rilevati dagli stessi superiori ecclesiastici. 
San Nicola de Morgitiis

Attualmente il clero irsinese conta meno di dieci membri. Molte chiese sono chiuse o risultano scomparse (San Filippo, nel quartiere San Filippo; San Nicola dei poveri; della Madonna dei Martiri, fuori Portarenacea; Santa Maria Nuova di Juso, fuori la Porticella), altre sono aperte solo nominalmente ed occasionalmente (Addolorata, Annunziata; San Nicola de Morgitiis, in largo San Nicola; Sant’Andrea; S.S. Salvatore; Purgatorio; San Rocco; Calvario; Madonna della Pietà; Santa Maria d’Irsi).

S Giuseppe - Taccone
Funzionano (1965) regolarmente soltanto le parrocchie: Cattedrale, San Francesco, Sant'Agostino, Immacolata, San Giuseppe. Le due ultime sono di nuova istituzione: la prima costruita al nuovissimo rione Croci, sul posto dove sorgeva l’abbeveratoio comunale; la seconda nel borgo Taccone, ormai disabitato e abbandonato. 
Lo spirito religioso non è molto più vivo di quanto fosse un secolo fa, malgrado lo spirito d’iniziativa di alcuni giovani sacerdoti. I nostri vicini Altamurani raccontano una storiella che dovrebbe dimostrare la scarsa intelligenza degli Irsinesi. Essa, al contrario, denota spirito realistico e, se mai, conferma il modesto senso fideistico dei Montepelosani. Dice la storiella che una volta gli Irsinesi vollero mettere alla prova l’esistenza di Dio e perciò modellarono un Cristo di neve. Poi lo misero in un forno ben riscaldato per controllare se conservasse, per miracolo, l’originaria compattezza. Ahimè! Il Cristo di neve si sciolse.
dipinto nella chiesa del Purgatorio, particolare
Dicevo, dunque, che lo spirito religioso degli Irsinesi dovette essere molto scarso nell’ultimo secolo, ad onta, anche, delle numerose, frequenti e fastose cerimonie e feste religiose, e c’è da credere, anzi, che la religione, almeno fra la maggioranza della popolazione, sia rimasta al livello del paganesimo e della superstizione, se è vero come è vero, che pratiche chiesastiche, scongiuri, fatture, magia e spiritismo si sono intrecciati e mescolati con molta facilità e disinvoltura nell’animo popolare, mantenendo in vita miti e leggende di un’età antichissima, e creandone altri, in cui il sacro e il profano si trovano, in maggiore o minore misura, confusi. È vero non ci sono mai stati maghi e fattucchiere nel nostro paese, almeno a memoria d’uomo e specialmente gli uomini hanno sempre asserito di non credere agli esimi personaggi di Gravina, Genzano, Spinazzola o Castellaneta che maggiormente si sono fatti un nome in materia di scongiuri e di magia. Ma è raro trovare un Irsinese che accetti (meglio: accettava) di accendere, terzo, la sigaretta a un medesimo fiammifero; o che non giurasse, qualche decennio fa sulla reale esistenza del tale o tal altro spirito o fantasma che dir si voglia.
Di origine, diciamo così, dotta, sono, molto evidentemente, le giaculatorie e le preghiere diffuse tra il popolo fino a qualche tempo fa, e che ore sono scomparse, sostituite da altre, sempre importate. Un esempio ci è offerto dalle seguenti, recitate in un dialetto che pretende o che risente dell’originale italiano o latino:

E diciamo il verbo di Dio,
è l’ora del gran Signore,
la croce è fatta per i peccatori,
la croce è tanto fina e tanto lunga: 
un braccio in cielo
e un altro in terra;
alla valle di Giosafatte
non avrai dove mettere mano;
tremerà la nostra vita
come trema la foglia della vite;
tremerà la nostra anima
come trema la foglia dell’albero;
tremerà il nostro corpo
come trema la foglia all’orto.
E adesso scende San Giovanni
con il libro d’oro in mano.
Va dicendo:
peccatori e peccatrici,
chi sa il verbo di Dio
se lo dica,
e chi non lo sa
vada a impararlo.
A quel mondo è richiesto,
dove con botte
e con fruscii (sic) di lacrime
sei accompagnato.

* * *
Mi corico nel letto
Con l’angelo perfetto
e con la regina madre
e Dio che mi accompagna.
Di notte e di giorno
con la vergine Maria,
in mezzo alla casa
l’angelo steso,
sopra il letto
l’angelo aperto,
al capezzale Gesù Cristo
e San Giovanni
con le braccia aperte.
Nel cammino
c’è l’angelo Raffaele.
Alleluja alleluja
Gesù Cristo è con noi.

* * *

Io ti chiudo la porta Santa,
col bastone di San Giuseppe.
Chi vuole male a me,
possa perdersi per la via.

Le dette preghiere sono recitate di sera, al momento di andare a letto come del resto la seguente:

Dies, Irae, dies illa,
Serva e secula e cunsapilla (sic).
Gesù mio, che gran terrore,
come giudice comparirai.
E non stai giorni ed anni
condannato con tanto affanno.
Quando quelle anime risorgeranno,
nel giorno del giudizio universale,
sorgerà morte e natura
dall’antica sepoltura.
Colpe e pene si confessano,
davanti a Dio le presento.
Alla eterna maestà,
che si salva si salverà.
E dal fondo di pietà
non farci perdere questa vita.
Tu ci creasti,
tu ci salvasti.
Sopra un legno di croce (in croce?)
ci accompagnasti.
Alla fine non basta
tribolare con azione,
Davanti a Dio quest’orazione.
All’eterna maestà,
chi si salva si salverà.
E salva quelle anime
dal fondo di pietà.
Tieni a mente
Grande Dio,
non farci perdere
questa vita.
Davanti a Dio sia dato
fra gli angeli beati,
separati i maledetti
nel fuoco eterno e stretto
e non stai giorni ed anni,
condannato con tanto affanno.
Dies irae et lacrimosae,
pace ai vivi e ai defunti,
a quelle anime
dona eis Domine,
requiescant in pace
amen.

Non esistono cenni di letteratura popolare religiosa che non siano mescolati a motivi magici e spiritistici, o che non abbiano un fondo satirico e, in sostanza di incredulità. Come la storia del peccatore pentito, per esempio. Essa racconta che un giovane a venti anni, avendo commesso ogni sorta di peccato e volendo abbandonare quella sua vita dissipata e condannata, dovette farsi ricevere dal papa per ottenere la promessa dell’assoluzione, non avendo voluto, il parroco e il vescovo del suo paese, assumersi tanta responsabilità. Lo stesso Santo Padre però gli consigliò, per ottenerla, una penitenza di almeno vent’anni in un bosco esterno, tanto erano gravi i peccati commessi. Soprattutto ammonì il giovane a non mangiare più carne, mai; a non bere più vino per nessuna ragione; a non conoscere più donna, a pena dell’inferno. Ma il povero penitente, giunto nel bosco indicatogli con tutta la buona volontà di pentirsi e con tutto l’ardore di propositi intatto ebbe la sfortuna di imbattersi in un convento di Santissime monachelle le quali, per la sicura salvezza del peccatore e per la maggior gloria del Signore, trovarono il modo di convincerlo che bere il moscato non significava bere vino, che gli uccelli e i polli non erano carne e che, soprattutto giacersi con loro equivaleva ad uccidere per sempre ogni desiderio di donna e perciò era l’unico modo di tenersi lontano dalla lussuria.
Come si concluda la storiella a noi non interessa, ma non è difficile da indovinarsi.
(1 - continua)

tratto dal libro di 






Michelino Dilillo 






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martedì 1 ottobre 2019

lo stemma di Montepeloso


Un decreto reale del 28 marzo 1895 accontentò gli amministratori comunali di Montepeloso … pardon … di Irsina, i quali, con deliberazione del 1° maggio dello stesso anno, ripristinarono il vecchio stemma di Montepeloso, «Consistente in tre monticelli con cinque spighe, delle quali tre poste sul monticello di mezzo ed una per ciascuno dei monticelli laterali. Le spighe comunemente si intende che vogliano dinotare dovizia di terre sative; ma una interpretazione forse più giusta vuole che queste spighe siano un ricordo della spiga che fu impronta della moneta di Eraclea e Metaponto e che furono elevate nello stemma della città per commemorare la sua greca origine. Infatti simili spighe si osservano negli stemmi delle città della Basilicata le quali pretendono ugualmente aver avuto origine greca, come sono Bernalda, Pisticci, Craco, Montescaglioso, Brindisi, ecc.”


Lo stemma di Irsina è legato a una vicenda storica. Esso rappresenta tre colli e cinque spighe su uno scudo, ma inizialmente le spighe erano sei; una fu donata, perché se ne servisse di stemma gentilizio, al benemerito cittadino arcidiacono Antonio Maffei, il quale dottamente seppe perorare presso il papa Sisto IV la restaurazione del Vescovato di Montepeloso nel 1479. 


lunedì 12 agosto 2019

agosto nella storia di Irsina fra 800 e 900


In agosto si continua a trebbiare, ma soprattutto si aspetta il vento per ventolare per separare il grano dalla paglia, lanciando in aria, con le pale di legno, le spighe già battute.
A volte, specialmente per le fave che richiedono vento forte, si attendeva fino a settembre, ai primi venticelli autunnali, tanto afose ed immote sono, certe volte, le giornate di agosto.
Né sono mancati, ogni tanto, casi di incendi per autocombustione.
In agosto ci fu l’unico attacco aereo anglo-americano, sul nostro paese, durante la seconda guerra mondiale. Il 25 agosto 1943 stormi di quadrimotori inondarono i nostri campi già mietuti, le ristoppie disseminate di usìdd, le aie piene di biche, con piastrine e spezzoni incendiari cadenti da altissima quota, dove luccicavano minuscoli e argentei i liberators.
Usìdd sono piccole biche provvisorie, formate subito dopo la mietitura in attesa che i covoni, ormai ben asciutti e rassodati dal sole, possano essere carrati e sistemati in biche sull'aia.
Nel mese di agosto ci fu un altro incendio rimasto famoso punto di riferimento per contare gli anni. Nel luogo dove ora è sistemata la piazza Andrea Costa, alla fine del’800, si faceva l’aia comune, quando le croci, che avevano dato il nome al luogo, già non c’erano più. In un anno imprecisato ma che deve cadere secondo i riferimenti di coloro che calcolano l’età da quella data, immediatamente prima della fine del secolo passato tra il 1895 e il 1900, un incendio si sviluppò in quell’aia collettiva, per cause imprecisate, distruggendo buona parte del raccolto irsinese almeno quello dei contadini piccoli e medi, giacché i ricchi non accedevano all'aia collettiva, ma trebbiavano sulle proprie aie nelle loro masserie. 

Da allora si perdette l’abitudine di accostare all’abitato tutti i cereali da trebbiare, ed il tentativo di riprendere l’esperienza nell’ultimo dopoguerra, è stato subito reso vano dall’introduzione massiccia dei mezzi meccanici che alla metà di luglio fanno trovare tutto il raccolto in paese, magari già venduto. Non poche volte specialmente i contadini poveri, vendevano già a maggio, in erba, i loro raccolti a speculatori forestieri.

tratto dal libro di 





Michelino Dilillo 






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sabato 3 agosto 2019

Agosto - San Rocco a Irsina fra '800 e '900


La chiesa di San Rocco con la Signora L'sandr (Alessandra) che la apre ai visitatori.
Il rito iniziava una o due settimane prima e consisteva nel portare in giro per tutto l’abitato u cirie in una grande questua casa per casa. U cirie era è una specie di altarino votivo mobile abbastanza pesante ed era portato a spalle da ragazze o donne devote, ed era seguito dall’organizzatrice che intonava rosari e canti, e da una turba di monelli che facevano il coro. Si fermava ad ogni angolo di strada, e alle donne che si affacciavano per vederlo passare, la zelante organizzatrice chiedeva un contributo per le candele. La notte, o il giorno prima della ricorrenza, secondo la distanza del Santuario cui il cirio era diretto, cominciava il pellegrinaggio vero e proprio. Allora ad esso si accodavano, oltre alla solita turba di monelli scalzi e scamiciati, anche donne devote, a volte scalze, imploranti dal Santo o dalla Madonna, la grazia di un figlio, o la pace della famiglia, oppure il ritorno del marito o la guarigione di un malato, secondo i casi e le circostanze personali e familiari.
I coloni, invece, i rampicanti, quelli, cioè, che potevano disporre di un traino, facevano il viaggio con più comodità. I preparativi della partenza cominciavano qualche giorno prima della ricorrenza. Le donne preparavano polli o conigli ripieni, ben rosolati in padella o a fuoco sotto a fuoco sopra, con uno strumento adatto denominato forno campagna. I mariti ingrassavano le ruote dei traini, vi fissavano delle canne ad arco o dei semicerchi metallici in modo da potervi stendere un telone alla maniera dei carri del Far West, governavano abbondantemente le mule, spiavano il cielo per scorgervi i segni eventuali di un temporale in vista che avrebbe potuto far abbassare repentinamente la temperatura. Le ragazze ed i giovanotti preparavano i vestiti nuovi, si sforzavano di mettere da parte qualche gruzzoletto personale per quelle spesucce di cui era meglio non chiedere e non dar conto ai genitori.

I pellegrinaggi veri e propri di una volta sembrano non esistere più e le feste sono soltanto occasioni di divertimento di massa e fughe dalle angustie di tutti i giorni.
Evviva Santi Rocca,
e Santi Rocca evviva,
evviva Santi Ro’
ca int’ a Tolv staia.
La mattina del 16, a Tolve, davanti e nella chiesa del Santo, si poteva assistere (e succede ancora, sia pure in forma meno vistosa e in numero molto più modesto) a scene di devozione non so più se disgustose o commoventi. Gente inginocchiata che saliva, in quella posizione, la scalinata lunga della chiesa, soffermandosi su ogni gradino il tempo necessario a recitare una corona di rosario. Donne scarmigliate e piangenti che imploravano, chiedevano insistentemente e quasi minacciando reclamavano le grazie ed i favori più diversi. Gente che percorreva tutta la lunghezza della navata, fino alla statua del Santo, inginocchiata e piegata in due sul pavimento, con la lingua strisciante sui duri e sporchi mattoni di pietra. Persone che recavano in braccio ex voto di ogni genere, mani e gambe e piedi e teste e corpi interi, che poi fanno lunga mostra nella chiesa stessa, piena di questi oggetti e di altri più preziosi.
Il pomeriggio, però, la maggior parte di questi pellegrini, dopo aver consumato le cibarie portate da casa ed averle abbondantemente innaffiate di vino rosso generoso, non pensano più alla devozione, pensano a divertirsi.
tratto dal libro di 




Michelino Dilillo 






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