Montepeloso
Tradizioni, storia, curiosità, immagini, lingua.

mercoledì 23 maggio 2018

i Montepelosani



Irsina, sino al 1985 Montepeloso, è un comune della Basilicata, nella provincia di Matera, posto, in zona collinare, ai confini della Puglia da una parte, e della provincia di Potenza dall'altra.
Gli abitanti della Puglia consideravano montanari gli Irsinesi. Ma non si può dire che ciò sia del tutto esatto, o per lo meno non lo è stato più dopo l'ultimo conflitto mondiale, perché la cittadina, anche se è posta su di una collina preappenninica a 549 metri sul livello del mare, risente l'influsso più della marina che della montagna, di cui pur fa parte.
Ora occorre spiegare il senso che i Pugliesi danno al termine montanari di cui gratificano gli Irsinesi. Montanari, o meglio montagnoli, vuol dire, nel linguaggio corrente, arretrati, zampitti (zotici), il significato, cioè, che per altri versi, si dà a villici, paesani, cafoni. Con lo stesso epiteto, del resto, con uguale spirito denigratorio e con altrettanta esagerazione, gli Irsinesi definivano Tolvesi, Tricaricesi, Grassanesi, gli abitanti, cioè, dei paesi vicini delle provincie di Matera e di Potenza.
Il fatto è che Irsina è posta in una di quelle zone di confine per cui vive un po’ ai margini della regione e della provincia di appartenenza senza, per questo, aver acquistato tutte le caratteristiche della regione e delle provincie confinanti. A volte Montepeloso è stata considerata parte integrante della regione pugliese, come riferisce Enrico Pani-Rossi in “La Basilicata”, edito a Verona da Civelli nel 1868.
Anche le credenze, le usanze, le tradizioni mostrano l’ibridismo insopprimibile e insuperabile che discende direttamente dalle continue trasmigrazioni da una regione all’altra. C’è, di fatto, una grande differenza di carattere tra Pugliesi, o meglio, Baresi, e Irsinesi. Questi dicono di quelli pagghiusi, che cioè fanno molta paglia, cioè sono considerati, infatti molto espansivi, che esagerano i loro sentimenti; attivi, industriosi, ma invadenti.
Gli Irsinesi, al contrario, sono chiusi e molto spesso appaiono scontrosi e diffidenti; attaccatissimi ai sentimenti ed agli affetti, non li manifestano mai rumorosamente.
Li coprono, invece, di un leggero velo di ironia che permette loro di esprimerli senza cadere nel lezioso e senza apparire sdolcinati. Reagiscono con ira proprio quando hanno paura di sembrare deboli e leggeri.
L’amicizia dell’Irsinese è sempre duratura e profonda perché egli disprezza la superficialità e più ancora la ostentazione, ma non si manifesta con moine e fronzoli. Il Montepelosano si fa un dovere dell’ospitalità e il forestiero che entra in Irsina trova tutte le porte aperte e tutti gli aiuti possibili. Ma rimane profondamente colpito e amareggiato quando si accorge che si approfitta della sua ospitalità e della sua sincerità. Il fondo ultimo degli Irsinesi è una certa ingenuità che li fa essere ottimisti anche là dove appaiono pessimisti, che li rende molto prudenti quando avvertono il tentativo di prenderli in giro o di non tenere esatto conto, realisticamente, di chi sono e di come vivono. 
Per questo i Montepelosani non sopportano e si ribellano all'ingiustizia.


Tratto dal libro di 
Michelino Dilillo 
IRSINA 
credenze, usanze, tradizioni montepelosane

giovedì 10 maggio 2018

Notargiacomo

Notargiacomo - 1958
La situazione economica e sociale di Irsina deve far comprendere appieno quella famosa turbolenza attribuita al popolo irsinese.
Come in diversi altri luoghi della Basilicata, nel 1949 esisteva a Irsina una larghissima schiera di braccianti agricoli in condizioni precarie vicine alla fame e un ristretto gruppo di proprietari terrieri che possedevano vastissimi latifondi che a volte neppure coltivavano appieno. Di qui le agitazioni e gli scioperi per il lavoro e per la terra e di qui l’affluenza della popolazione nei partiti di sinistra e in particolare nel PCI.
Veramente Irsina ha una lunga tradizione socialista: già intorno al 1885 a Montepeloso esisteva una Società di Mutuo Soccorso di impostazione socialista e dal 1911 la amministrazione comunale fu tenuta dai rossi e fu lasciata nel 1923 solo in seguito alle violenze fasciste e al bando, dai fascisti decretato, contro eminenti concittadini come il maestro Vincenzo Torrio e l’avvocato Di Mase.
Con la Riforma Agraria furono scorporate e assegnate a braccianti agricoli le vastissime tenute della contessina Nugent a Notargiacomo, a San Giovanni, a Monteverdese; le zone di Taccone e di pana Cardone, i terreni fertilissimi della valle del Bradano. Zone intere che prima erano abbandonate al pascolo o isterilite in monotone colture estensive furono spezzettate a dar lavoro e sostentamento a diverse centinaia di famiglie sottratte così alla misera nera e alla fame.

Verso le Difese, nella zona Matinelle è sorto il Villaggio Difese, meglio conosciuto come Santa Maria d’Irsi, anche se non ha nulla a che fare col monte Irsi. Il Borgo dovrebbe dare la terra e la casa a centinaia di famiglie contadine in molti poderi dotati di abitazione e di stalla. Nel Borgo sono sorti numerosi edifici, dalla scuola alla caserma dei Carabinieri, dalla casa Comunale alla chiesa che sembra di gran lunga la più bella costruzione. Tutto fu progettato nel 1947 e nell’aprile di 1948, pochi giorni prima delle elezioni politiche, uomini di promo piano della vita pubblica vi posero la prima pietra. Il Villaggio non è ancora abitato e le casette sparse nei poderi intristiscono nella solitudine e nell’abbandono.
Altri borghi rurali sono sorti nelle zone espropriate dall'Ente: Notargiacomo, San Giovanni, e Taccone; i nomi di questi borghi sono legati a una tappa fondamentale dello sviluppo economico e sociale del paese: rappresentano la Riforma Agraria, la terra ai contadini, la prima comparsa della meccanizzazione agricola e dei processi moderni di coltivazione dei campi.



 Borghi rurali sorsero nelle zone espropriate dall’Ente per la trasformazione fondiaria; nelle contrade Notargiacomo, Taccone, San Giovanni sorsero le borgate omonime. Altri agglomerati di abitazioni sorsero a Piana dei Carri, a Monteverde, a Piana Cardone.
I borghi e le case sparse di campagna, se vi fosse stato uno stabile insediamento umano, avrebbero potuto rappresentare uno sbocco alla penuria di alloggi. Ma non andò così.  Gli agglomerati umani non furono mai vitali perché non furono forniti di energia elettrica né di acqua corrente e fogna, né di guardia medica, né di altri servizi essenziali, se non troppo tardi, quando i poderi erano ormai stati abbandonati. Periodo di intenso insediamento nei borghi può considerarsi l’annata agraria 1958-59, come si evince dalle iscrizioni di alunni alle scuole di campagna che erano state istituite in alcuni locali dei villaggi. A Notargiacomo all’inizio dell’anno scolastico si iscrissero meno di dieci alunni e non tutti frequentarono le lezioni, ma alla fine dell’anno la scuola contava 42 alunni iscritti e tutti frequentavano regolarmente, A mano a mano che si inoltrava la primavera e si avvicinava il raccolto, la popolazione delle borgate aumentava rapidamente.
Le immagini mostrano quel che resta di quel villaggio
Rimanevano insoluti però i problemi di fondo. Taccone è stata costruita come villaggio tradizionale, la chiesa e gli uffici intorno a cui sorgono le abitazioni. Un serbatoio di acqua potabile alimentato con autobotti permetteva il funzionamento di qualche fontana pubblica. Un gruppo elettrogeno forniva corrente elettrica non solo agli uffici, ma anche alle abitazioni, sia pure limitatamente nelle poche ore serali ma non notturne. Ma a Notargiacomo e a San Giovanni le cose non stavano così. La chiesa e gli uffici al centro anche qui, comprese le case dei funzionari dell’Ente Riforma, ma con il rifornimento giornaliero di acqua potabile e il gruppo elettrogeno la sera; le case degli assegnatari, però, sono sparse in un raggio vastissimo, a distanze fino a 500 metri l’una dall’altra e ancora più lontane dal centro. Niente gruppo elettrogeno per questi assegnatari, niente fornitura di acqua potabile. Un’autobotte distribuiva due volte a settimana, 200 litri di acqua di pozzo. A Notargiacomo e a Taccone era aperto uno spaccio a cura dell’Ente riforma nel quale si potevano acquistare tabacchi, pasta, salse, liquori. Ma non il pane e altri generi necessari che bisognava procurarsi ogni giorno in paese, viaggiando a pagamento su uno sgangherato autobus di linea che si manteneva con un contributo dell’Ente e uno del Comune. Quando era buon tempo gli assegnatari delle palazzine più vicine agli uffici potevano andare a trattenersi qualche ora nel circolo degli assegnatari a giocare a carte o a guardare la televisione. Per quelli più lontani e per tutti se era mal tempo, rimaneva la stanchezza, il lume a petrolio o la candela da risparmiare, e il letto appena buio.


Notargiacomo - 1985
A San Giovanni non c’era nemmeno lo spaccio e il posto più vicino per qualche acquisto era Notargiacomo, distante 5 chilometri da percorrere a piedi.
Le 495 famiglie assegnatarie, insomma, dopo pochissimi anni, abbandonarono i villaggi e alcune tronarono in paese, altre emigrarono verso il nord Italia o all’estero.






Tratto dal libro di Michelino Dilillo 
IRSINA 
vita e scuola in un comune del mezzogiorno













martedì 8 maggio 2018

Montepeloso - convento di Santa Chiara



Montepeloso - 1930 circa. 

La cartolina ritrae Largo Garibaldi nel giorno della fiera del 12 settembre. Si distinguono chiaramente le ceste in vendita, le tende di alcune “bancarelle” (stand?) e tappeti al suolo per le merci. 

Sulla sinistra è evidente il palazzo del Convento di santa Chiara che ospitava le suore di clausura; sembra di scorgere proprio una delle sorelle che pare sciorinare dal balcone un lenzuolo e accanto all'ingresso si intravede una figura, forse altra suora, che tiene per mano un bambino. 
Le Clarisse tenevano nei pressi dell'ingresso la cosiddetta "ruota degli esposti".   

Era una bussola girevole in legno nella quale si potevano depositare i neonati non voluti. I bambini venivano abbandonati in questo vano girevole in legno che ruotando portava all'interno il bambino. 

La struttura in legno chiamata appunto "ruota" assicurava l'anonimato di chi deponeva in quel luogo i figli di gravidanze non volute; una cordicella accanto alla bussola azionava una campanella situata all'interno che avvertiva le suore dell'avvenuto deposito dell'infante che veniva poi allevato dalle suore e ben presto dato in affido come servitore presso benestanti. 

L’usanza di abbandonare i neonati nella ruota era socialmente accettata e diffusa in tutta Europa a causa della estrema miseria delle famiglie popolari che non potevano permettersi di sfamare un maggior numero di figli. 
Napoli e Milano facevano registrare i più numerosi casi di abbandono; nella sola Milano, per esempio, a metà dell’800 si arrivò a registrare oltre 4.000 abbandoni all’anno.

Le “ruote”, diffusissime in quasi tutti i centri abitati, erano molto spesso collocate nei conventi di santa Chiara, come a Montepeloso, a Taranto, a Monopoli.
La ruota pare fosse stata istituita nel medioevo da Papa Innocenzo terzo, turbato dalla frequenza di ritrovamenti di neonati annegati nel Tevere, quale strumento alternativo alla soppressione immediata dei neonati che le famiglie non potevano allevare; lo strumento trovò quindi diffusione in tutti i paesi europei per lo più presso ospedali o conventi proprio quale argine umanitario all’infanticidio, fenomeno che nelle epoche di maggior miseria diveniva dilagante. La mia bisnonna raccontava che alla fine ‘800, durante dei lavori in una casa irsinese, sotto la lastra del camino erano stati trovati i resti di un corpicino là sepolto in un’epoca non precisabile.

La “ruota degli esposti” fu abolita definitivamente nel 1923, ma non sono riuscito ad appurare se quella di Irsina abbia invece continuato a funzionare anche dopo quella data.

Le suore abbandonarono quel fabbricato che rimase vuoto; col tempo le celle delle suore vennero occupate da famiglie poverissime senza casa e l'intera struttura, ormai fatiscente, finì per diventare una sorta di ghetto. 
Nel 1934 si decise di abbattere definitivamente quella costruzione e al suo posto venne eretto l'edificio scolastico che, inaugurato nel 1937, ospita ancora oggi le scuole elementari.


domenica 6 maggio 2018

tradizioni di Montepeloso - A maggio fa come ti piace


A mesc fa com t pie’c
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Montepeloso - 1930 
A maggio fa come ti piace ma non sposarti, perché maggio u mes i’ ciocc’, il mese dei ciucci.
Maggio è il mese più alto, il mese più lungo, perché solo verso la fine i vòngl, le fave fresche con ancora il baccello, intervenivano a risollevare le famiglie esauste per la fame.
A maggio si andava  a sciuppè i vòngl.
A maggio solo gli animali stanno bene, si diceva: hanno erba abbondante, coprono le ossa e lustrano il pelo, e particolarmente l’asino, l’animale da soma più diffuso nel nostro paese. Perciò dire che Mesc, iè u mes i’ ciocci’ significa rimarcare che in quel mese solo gli erbivori avevano da mangiare ed era impensabile un matrimonio, nell’impossibilità assoluta in cui si troverebbero le famiglie di affrontare le spese di uno sposalizio. Per lo più i matrimoni si festeggiavano nei mesi di settembre e di ottobre, dopo il raccolto. Anche nel mese di Natale a gennaio e nelle domeniche dopo Pasqua, particolarmente la prima, si facevano parecchi matrimoni.
Sciuppè, strappare le fave, masciàre, che vuol dire togliere l’erba nei seminati, e viene proprio dalla radice mesc, maggio, cioè l’opera che si compie a maggio e rimasciàre, cioè zappare e rizappare la vigna, ma non in profondità, quel tanto che serva a togliere le erbe che vi sono cresciute ma senza smuovere il terreno in modo che vi si possa conservare la sazia primaverile, cioè l’umido delle piogge di primavera. Sarchiare, insomma. Questi sono i lavori che tenevano impegnati gli Irsinesi nel mese di maggio. Le masserie fervevano di attività in preparazione della mietitura, oltre che per la fienagione e per la carosa delle pecore. Queste attività febbrili non venivano interrotte nemmeno dal pellegrinaggio ad Irsi, nella prima domenica del mese, né dalla festa della pietà. Ma il 18 maggio è fiera, e questa fa parte di quelle attività di preparazione alla mietitura: si vendevano gli animali che non servivano, dopo che avevano preso l’erba e ben nutriti avevano nascosto almeno in parte i loro difetti; si compravano gli animali occorrenti ai lavori che si approssimavano nella stagione d’oro, per un paese agricolo come il nostro. I piccoli coloni compravano un animale, alla fiera di maggio, che servisse loro nei lavori di raccolta e di prima aratura, e lo rivendevano alla fiera di settembre per non doverlo mantenere in inverno.
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Tratto dal libro di Michelino Dilillo 
IRSINA 
credenze, usanze, tradizioni montepelosane