Montepeloso
Tradizioni, storia, curiosità, immagini, lingua.

venerdì 27 luglio 2018

Irsina, Il cinema LUCANIA



Il grande cinema Lucania di Irsina dalla metà del secolo scorso, per decenni, ha accompagnato lo sviluppo culturale ed emozionale di varie generazioni di Irsinesi.
In piazza Andrea Costa un’insegna luminosa azzurra, non sempre accesa annunciava “CINEMA”; con gli anni i neon si consumarono e rimasero fortunosamente illuminate le prime quattro lettere “cine” così la scritta dava anche un senso di modernità linguistica alla struttura che pubblicizzava. Il cinema aveva una capienza di 607 posti a sedere e per le proiezioni più attese riusciva a ospitare almeno altri 100 spettatori seduti sulle scale o in piedi poggiati alle pareti.
U c’nm Mauròcc  - si diceva comunemente per distinguerlo dal cinema parrocchiale San Francesco che accoglieva pubblico e monelli nei locali della omonima chiesa nel paese vecchio, e dal Cinema Impero gestito dalla famiglia Loreto in un magazzino a piano terra del palazzo ducale e che era stato in funzione in Piazza Garibaldi sino al 1952, quando fu rilevato e chiuso dai proprietari del Cinema Lucania che già era in attività da circa un anno.
Il Cinema Lucania negli anni ’60 proiettava tutti i migliori film che circolavano nelle sale nazionali, sia pure con qualche mese di ritardo, quando magari le pellicole uscivano dai circuiti di "prima visione" e avevano prezzi di noleggio più abbordabili e durante l’estate dava fondo al meglio della filmografia americana degli anni ‘40 e ‘50. Era una sala di proiezione ben strutturata, con la platea, la galleria, un piccolo foyer dove si sostava non proprio in silenzio ad aspettare l’inizio degli spettacoli, i bagni e una minuscola cabina di proiezione. Il botteghino era in un angolo accanto alla scalinata che portava in galleria dove i primi tre posti centrali erano riservati alle autorità e quindi chiusi da una catenella. Nel corso dell’anno 1965 contò 112.950 spettatori con punte massime nei mesi di dicembre con 14.024 biglietti venduti e di maggio con 13.102 biglietti.
Ci ho visto di tutto in quella sala nei miei primi undici anni di vita e anche oltre: da Ben-Hur a Catene, dai grandi "peplum" a tutti i western classici, Il Grande cielo, Un dollaro d’onore; dalla fantascienza giapponese di Godzilla, ai noire americani e francesi, F.B.I., Rififì, da Totò e Stanlio e Ollio al Dottor Zivago oltre a una infinita serie di pellicole sui pirati.
In platea specie di domenica con il pienone, c'era gazzarra, un via vai continuo di ragazzi che chiassavano e facevano hiss e tres dalle latrine, impegnati in qualche battaglia emulativa delle avventure del film o in qualche scorribanda alternativa se il film era noioso o anche perché lo avevano già visto due volte almeno, per sfruttare al massimo il biglietto pagato. Si andava al cinema anche per vedere il film, spesso a prescindere dal titolo perché era uno svago in sé. In galleria, di sopra, il biglietto costava di più ma si stava più tranquilli. Un poco.
Ogni giorno davano un film diverso, tranne la domenica quando invece ripetevano lo stesso del giorno prima, ma la festa veniva quando la domenica per attirare più spettatori ne davano due di pellicole, due diversi film al prezzo di uno solo, uno dietro l’altro, così davvero al cinema ci si passava il pomeriggio intero sino a sera, per vedere almeno due volte le due pellicole in cartellone. In quei pomeriggi nel cinema accadeva di tutto, battaglie organizzate per la conquista della prima fila, lancio di oggetti, urla varie a chiosare le scene più salienti e l’apoteosi si raggiungeva quando sullo schermo si fermava l’immagine e un puntino della scena si allargava sempre di più verso i bordi del fotogramma: si fondeva la pellicola e l’operatore accendeva subito le luci in sala: i fischi e le urla a quel punto, oltre le invettive all’indirizzo del conosciutissimo uomo alla macchina somigliavano dì più a una sommossa di piazza che a una fruizione della settima arte, tanto che  la maschera, impegnata a tentare di mantenere l’ordine pubblico, spesso concludeva l’inseguimento di qualche scalmanato con una bella pedata di punta o di tacco.
Mi raccontano che quando per la prima volta negli anni ’50 diedero "Catene" con Amedeo Nazzari e Ivonne Sanson, in paese scoppiò una rivoluzione: si faceva la fila fuori della porta del cinema fin dalla mattina e lo proiettarono per molti giorni di seguito, tanto atteso era quell’inguardabile film che faceva versare calde lacrime ai cuori più induriti.
A Irsina, nei primi anni ’60 eravamo in diecimila circa e in alternativa al Lucania c'era il cinema parrocchiale "San Francesco" dove a prezzi stracciati davano film edificanti, Marcellino pane e vino, vite di santi, e qualche Gianni e Pinotto (la retorica delle guerre imperialiste USA in Indocina era considerata edificante) e qualche Zorro tutto spezzettato. Anche la parrocchia dell’Immacolata si era attrezzata per proiettare di tanto in tanto qualche film, ma gratis. Irsina era un paese a forte vocazione comunista e si consumavano tutte le iniziative possibili, in quegli anni di forti frizioni sociali, per tentare di allontanare le coscienze dei ragazzi dalle correnti idee comuniste: da un lato il commissariato di PS con la polizia politica manette e manganello e dall’altro le parrocchie coi filmini Paolini su San Tarcisio. All’Immacolata non chiedevano denaro ma per entrare bisognava esibire un mezzo bigliettino di carta colorata firmato dal prete per ottenere il quale occorreva aver frequentato il catechismo durante la settimana, ed erano inflessibili, le sante donne della canonica: niente catechismo, niente biglietto e quindi niente cinema; a nulla valevano i pianti di bambini che mai avrebbero avuto le 40 lire in tasca per andare al cinema vero e che, fra lo scherno dei compagni in sovrapprezzo, venivano implacabilmente lasciati fuori dal piccolo cinema per opera della bontà divina che animava le pinzochere di quelle sacrestie perché non avevano l’altro mezzo biglietto, o ne avevano solo un pezzetto ricettato e sgualcito, tratto dalla stessa tasca sdrucita dove custodivano nu pizzl, na pret ca taggh e na cendra tort.
Epocale fu intorno al 1965 l’annuncio fra i provini – così chiamavamo i trailers – imminente su questo schermo: “Angelica,” il mitico film del 1964 con Michelle Mercier che narra le vicende amorose di una bellissima contessa e degli intrighi di potere alla corte del Re Sole. Probabilmente qualche scena audace nel trailer aveva ingenerato in paese, specie fra i ragazzini, la convinzione di poter assistere in quel film a succulenti e generosi spettacoli erotici che, in quegli anni, erano non rari, ma praticamente impensabili nell’Italia clericale che sequestrava i film di Pasolini e di Bertolucci e che in TV metteva la calzamaglia alle gambe delle gemelle Kessler. Intendiamoci, trattavasi di scene che oggi trasmetterebbe la rai nazionale alla tivvu dei ragazzi, ma che allora, invece, infuocavano l’immaginazione dei maschi irsinesi con l’ipotalamo surriscaldato dalla pressione ormonale della giovinezza e dalla oppressiva cappa perbenista che animava i costumi dell’epoca.
In quei giorni un fremito scuoteva i maschi del paese di ogni età, dai 7 ai diciassette ai 27 ai 107 anni: ANGELICA! E finalmente il cartellone! Quello grande all’arco di Sant’Eufemia e quello piccolo su corso Musacchio. Sabato e domenica, al cinema Lucania: Angelica. Uno spasmo, l’attesa; fra ragazzini ci si guardava muti, il pomo d’Adamo ballava per deglutire il cuore che se ne era salito in gola: Ouì a Lalòcc, ha fatt già l’ucch’ ròss.
Angelica, prossimamente! E si andava a cinema nei giorni precedenti, per vedere e rivedere il “provino” sperando potesse scappare qualche bella scena intrigante e c’erano quelli che millantavano che la sera prima, sul tardi, l’operatore avesse mandato per sbaglio una scena in più …
Non si parlava d’altro, la tensione era alle stelle e il sabato mattina … la doccia fredda: il manifesto annunciava sì stasera - a grande richiesta ANGELICA, ma una striscia bianca trasversa, per ironia proprio sul petto della bionda Mercier, annunciava – perfida - la fine d’ogni illusione: vietato ai minori di anni 14.
La fila sin dal primo pomeriggio davanti al cinema Lucania era tutta maschile: un film di cappa e spada quale era quel film, un casto fumettone alla Dumas ma molto meno denso di letteratura, inspiegabilmente a Irsina era atteso - manco fosse Emmanuelle l’antivergine di 20 anni più tardi - come la messianica rivoluzione sessuale di Wilhelm Reich.
Alle cinque del pomeriggio, all’inizio del secondo spettacolo, approfittando della ressa che si creava fra quelli che uscivano sgomitando e quelli che aspettavano di entrare sgomitando, compattati ma in ordine sparso tentammo la fortuna sgattaiolando fra stinchi e ginocchia di uomini adulti, acquattati nei sottopancia degli anzianotti col cappello che facevano la faccia indifferente come se stessero in fila dal dottore, provammo a impizzarci, ma la manovra, benché ben studiata, non ebbe successo: la maschera pareva un polipo dalle cento braccia, ci agguantò subito uno per uno e ci buttò sul marciapiede a ruzzolare scarpe e tutto e l’ultimo di noi lo lanciò come si tira una palla al bowling a rotolare sull’asfalto. Qualcuno fra i più alti e grandicelli era riuscito a fronteggiare il bigliettaio giurando di avere i 14 anni richiesti al varco del paradiso ma poi ci raccontò che gli avevano chiesto la carta di identità o un altro documento per dimostrarlo ed era finito fuori in villa a sciucuò u pizzl.
Affranti e sconfitti sciogliemmo il commando e ci ritirammo a casa a meditare sull’ingiustizia e le terribili discriminazioni della vita: se una cosa è bella e piacevole, perche diavolo mai debbano potersela godere solo i più grandi? Prima del terzo spettacolo chiesi, ma con poche speranze, anche a mio padre, assiduo mio compagno di serali proiezioni, di portarmi con sé al cinema e lui promise: lunedì. Andiamoci stasera, gli dissi con finta aria distratta; no, rispose: oggi è proibito. Tante grazie. Mi arresi e rimasi in malinconia sino alla scialba sera della domenica.
Me ne stavo sbuffante a sventolare pagine di Blek Macigno quando a un tratto bussarono alla porta; mamma aprì e accolse due suoi ex alunni che avevano terminato le elementari un paio di anni prima. Mia madre accolse con calore la inusitata visita e dopo brevi convenevoli ne chiese la ragione. I tre si scambiarono un muto sguardo e il più alto prese il fiato ed estratta dalla tasca la pagella sgualcita che aveva ricevuto a fine scuola, propose alla maestra di aggiustare, con la sue stessa grafia, la data di nascita così che potesse risultare esser nato due anni prima e si avventurò a spiegare che gli serviva per andare a fare un lavoro con lo zio che doveva andare alla Germania e che non mandava soldi a casa e che il dramma dell’emigrazione e degli orsi polari in estinzione sulla calotta dell’Anantartico meridionale gli toglieva il sonno anche alla nonna che poi era pure una commara.
Mia madre non la bevve e tanto si mise a insistere con i tre furbacchioni che alla fine u chiù m’ninnaridd confessò che gli serviva per entrare al cinema a vedere Angelica colla carta giusta per dirsi quattordicenni abili e arruolati.
Non la spuntarono.
Poi il paese piano piano prese a svuotarsi: si partiva, si emigrava, già molti dei miei compagni avevano il padre in Germania o a Milano e tanti a Sassuolo. Lì ci avevo un grappolo di zii e quando Tito Stagno commentava lo sbarco sulla Luna io ero proprio a Sassuolo a casa dei miei cugini: loro, tredicenni, andavano al lavoro e io li aspettavo guardando l’allunaggio e decine di film di fantascienza in una vecchia TV in bianco e nero che ogni tanto aveva bisogno di uno schiaffetto sul lato destro per ritrovare l’audio che già subito di nuovo si arrochiva. A sera, dopo cena, andavamo al cinema, un lamione di periferia improvvisato e senza pendenza dove il suono rimbombava: nulla a che fare con il nostro Cinema Lucania. Il cugino che si alzava presto per andare in officina ogni tanto si appisolava, a tredici anni la fatica si sente forse di più, ma spesso era l’audio rombante o la pellicola scadente a far venire il sonno a tutti, mentre sembrava di essere a casa quando si spezzava la pellicola e partivano i fischi e lazzi dalle file ultime vicino i cessi. Una sera davano un film sul martirio di non so più quale santo il cui realismo consisteva nel martirizzare anche gli spettatori con dialoghi avvilenti e lacrimose scene patetiche. A metà del primo tempo la platea era allo stremo dello scassamento umorale e si cominciarono a contare i primi suicidi fra le file sotto il telone: chi si rivoltava nella seggiola di legno, chi sospirava, chi tentava di dormire, chi canticchiava l’ultimo sanremo fino a quando un paesano sbottò dalla platea, si alzo in piedi sulla sedia e con le mani a tromba sulla bocca urlò all’indirizzo della proiezione sassolese:
Stivali’, mitt o secònd !!”
E ci sentimmo subito a casa.
I miei compagni di un tempo avevano raggiunto padri e fratelli a Sassuolo, a Novi Ligure, a Torino, a Parma a Pisa e io andai a Matera con la famiglia sin dal 1967. Per tutti gli anni ’70 tornare a Irsina era una festa e un dolore, un lancinante dispiacere e un abbraccio intenso con chi ancora stava là. Natale, agosto, Sant’Eufemia. Non sempre. Sempre più di rado. Tutti.
Gli anni ’80 con il proliferare dei canali TV, furono fatali per centinaia di sale di proiezione cinematografica che per sopravvivere, dopo infinite sequele di pessimi film di Kung-fu sulla scia del mito (inspiegabile mito di uno bravo nientemeno che a dare acrobatiche mazzate al prossimo) di Bruce Lee, si ridussero a proiettare avvilenti pellicole porno che attiravano un pubblico sempre più ristretto e sparuto e infine chiusero del tutto. La gente rimaneva in casa a vedere la pubblicità sulle emittenti di B. e poi anche sulla Rai e non andava più al cinema. Chiuse il cinema Lucania di Irsina, a Matera chiuse il Quinto mentre interventi della mano pubblica consentirono ad altre sale di rimanere attive, sia pure solo per proiezioni festive; ma il fascino della sala buia ormai attirava pochi fedeli cinefili resi meno assidui anche dall'assurdo divieto di fumare in quei locali in vigore oramai dal 1975.
Uno dei ricordi più belli della mia infanzia cinefila è il raggio di proiezione che dalla galleria si slanciava in basso dalla balconata sulla platea a colpire lo schermo bianco; i raggi cangiavano colore e le volute di fumo di sigarette che volava libero nella sala disegnavano fra quei raggi mobili, meravigliosi arabeschi colorati che a volte materializzavano un viso, a volte un cane, a volte una nave, un vapore pieno di gente che parte: un film nel film sull’onda della fantasia. Il Cinema Lucania è stato per gli Irsinesi del secondo novecento la materia dei sogni, la lanterna magica della conoscenza e dell’immaginario, la cassa di risonanza delle emozioni: un eccezionale momento di crescita culturale della nostra comunità.
Ora al posto del cinema Lucania ci sta un supermercato. 
Non ci sono mai entrato, non potrei: la commozione mi ucciderebbe.


mercoledì 11 luglio 2018

compagni di scuola - IRSINA 1962 - 1967 - Dal DIARIO IRSINESE

Giravamo armati sino ai denti, la fionda - a frècc - 
alla cintola e na sacc a zammèl d lapìdd, il passante dei pantaloni slabbrato a furia di portarci la spada di legno:  erano tempi duri e bisognava stare all’erta.  Le armi in casa non si potevano tenere e dovevamo nasconderle nei fossi, negli scantinati, sotto le caforchie di spine, così che il nemico non potesse trovarle e usarle contro di noi. Peppino Cantacesso detto Blek aveva na cascitedd di legno color metallo nascosta sotto il lettone della madre con una piccola serratura; la chiave lui la nascondeva dietro il contatore grande dell’acqua nel portone. Là ci teneva le armi segrete, la freccia grossa, con la forcella di ferro tondino arrotolato, e due potenti nastri elastici presi da una camere d’aria non camilata  uniti al vertice dalla pezza, un ritaglio di cuoio per poggiare i proiettili, scelto con cura durante le battute di caccia nei fossi e nelle discariche fra i resti di scarpacce sconciate con le fauci spalancate e i chiodi aguzzi come zanne;  le munizioni erano lapilli tondi e pesanti selezionati nei fossi quando si andava per canne.
E di canna erano le temibili lance indiane indispensabili nell’arsenale insieme alle frecce indiane:  una cordicella cioè tendeva ad arco un raggio di ombrello scassato mentre un altro raggio, meticolosamente strofinato sul tufo per appuntirlo, faceva da saetta e Aldino un giorno ci stava lasciando un occhio durante un combattimento. L’arsenale si completava con l’uso, per fortuna saltuario, di missili balistici il cui lancio era subordinato all’approvvigionamento - furtivo e clandestino - di pietre di acetilene da sotto le bancarelle dei nocellai.  In terra si scavava un canaletto che conduceva a una buca, nella buca si posizionava un sassolino di acetilene e lo si copriva con rugginoso barattolo di conserve raccattato in qualche mondezzaio; lo si compattava con un po’ di terra e si lasciava correre dell’acqua lungo il canaletto. Appena si sentiva friggere il gas sviluppato dalla pietra con l’acqua, con un zippo lungo acceso in punta si dava fuoco al gas e il barattolo partiva in cielo con un botto, come un missile vero a perdersi nell’infinito.
Le battaglie erano frequenti, i tradtur d’acchedavann u pozz non rispettavano i trattati e spesso la parola passava alle armi, con fitte sassaiole da dietro l’avviamento e quando quelli sconfinavano, dalle frecce si passava alle spade e al corpo a corpo, infuocando di sudore e polvere la spianata dei Cappuccini.  
Le armi si riponevano quando veniva dichiarata a sfet, la sfida. Partivano i reclutamenti e quando eravamo tutti presenti, con gli occhi ridenti dicevamo: sem ricch!, siamo ricchi. Ricchi di compagnia sicura. E forte.
La sfida era una partita di calcio dalla durata indefinita che si svolgeva in uno dei campetti più accreditati: dietro le scuole a ridosso della macchina del catrame dimenticata là da chissà quale ditta, oppure  mmenz o larghìr, oppure, per le solennità, dietro a chiis Donvìt, un fabbricato in tufo nato per uso industriale o scolastico, adattato a parrocchia e dislocato nei pressi d u fuss u macidd, il fossato che trasportava liquami dal mattatoio sin fuori dell’abitato passando vicino al grigio pozzo chiuso che stava dove oggi corre una pizzeria.
Le sfide di calcio erano interminabili, le porte segnate da due sassi ai lati e l’area di rigore col gesso di tufo strofinato a terra. Interminabili - a bordo campo Peppin Granntrotterellava, gli occhi a terra come un vero guardalinee - e a regole variabili,  dallapunizion in offs al cambiafall e all’esecrabile manimani preterintenzionale certificato in area dal l’aggh vist hei di almeno due giocatori; infinite galoppate dal dopopranzo sino a notte, sino a quando qualche mamma non veniva scopa alla mano a recuperare l’ala sinistra o il portiere o, peggio, il padrone del pallone. Infiniti scarti e puntazze,  palestre di talenti veri: goleador, difensori inviolabili, attaccanti temibili in azioni personali, simulatori professionisti di fallo con dolore, svenimento o pianto alla bisogna; io ero fra quelli cheavevna dè ntralc all’avversario, cioè un brocco totale e la mia specialità erano i lisci carpiati con lancio della scarpa o senza lancio della scarpa, seconda della resistenza dei lacci,  tanto che l’orchestra Casadei si era interessata alle mie doti e mi volevano in Romagna insieme al grande Saverio Mercadante che cercava di essere più liscio di me e a volte ci riusciva pure. 

A scuola era d’obbligo il grembiule nero abbottonato dietro, come il prete al contrario, il colletto bianco e il fiocco blu, ma, per fortuna, il risultato uniforme non era mai raggiunto e non solo per le diverse sfumature di nero: chi senza fiocco, chi col fiocco e senza colletto chi senza nulla affatto, chi con lo scudetto e chi con i numeri romani cuciti in petto con un nastrino bianco.  Tornava utile il grembiule all’uscita da scuola per la cavalcata di Zorro: sfilate le maniche si girava al contrario e, legato con l’ultimo bottone stretto alla gola, sventolava nella corsa come un nero mantello al vento e già questo bastava per sentirselo sotto davvero, il cavallo di Zorro.
In classe eravamo stipati in una bella stanza che al pomeriggio si riempiva di sole giallo, i primi banchi fin sotto la lavagna, tre file, gli ultimi appiccicati agli attaccapanni. Il maestro metteva il cappello sulla cattedra e ci parlava sempre con tono cordiale e ci guidava fra le pagine del libro nei misteri della lettura. E quel libro, concepito e scritto in quel nord Italia che aspettava o già aveva rapito molti dei nostri padri e zii e fratelli, di misteri ne conteneva a iosa.
Il nostro ottimo libro di letture a pagina 26 narrava del bambino Salvatore che accompagnando la mamma dal pizzicagnolo, voleva portare da solo, il bravo ometto, tutti i pacchi della spesa.  A ogni rilettura del brano noi ci si voltava ridacchiando a guardareSalvatore Pisani, ché era la prima volta che sul libro c’era un nome nostro, dopo gli Arturo, i Fabio e gli Alessandro che sino ad allora avevamo incontrato, personaggi estranei assoluti per noi sinanche nei nomi.  Noi eravamo 42, più della metà si chiamava Peppino, e fra gli altri nessun Riccardo e nessun Giulio. Trovare un Salvatore nel libro era una svolta epocale e ci giravamo tutti a guardarlo quando il lettore di turno lo nominava, Salvatore, e quello agitava su e giù la mano a imbuto, ma era contento.
Una bella lettura edificante che parlava di buste della spesa e di generosità da ometti, rimase impressa nella memoria di tutta la compagnia perché secondo l'antico metodo della decimazione, il maestro domandò a caso tra le falangi che cosa significasse “pizzicagnolo”.

Lo sguardo attonito degli interpellati a  turno esprimeva molto sforzo di caldaie e tanto smarrimento nell'attesa della scarica di carcaroz­zi cotognetti e calcinculo che maturavano in silenzio tra lavagna e crocefis­so, anche perché - fondamentalmente -  ci mancava proprio il concetto base dell'aver da trasportare voluminosi e pesanti sacchetti di generi alimentari acquistati detti "spesa", esperienza del tutto ignota alla platea. 

Qualcuno bluffò di­cendo "non mi ricordo" e ven­ne fucilato nella schiena; quelli che la buttarono sull'etimologia biascican­do fesserie suicagno‑lini furono decapitati sommariamente e riabilitati solo nell'89 con un Nobel per la pace secondo l'usanza antisovietica di quei giorni, altri tacendo si accucciarono sotto il banco come colti da improvvido torpore.
Nessuno sapeva cosa diavolo fosse questo fetente d'un pizzicagnolo.
Poi il maestro, smontato che ebbe il patibolo e sfilatosi il cappuccio nero dalla testa, ce lo spiegò che il pizzicagnolo è una specie di salumiere che vende cose da mangiare come le scatolette della carne in conserva, le delicates­sen, le salsicce e, a volte, anche il pane.
Allora ca­pimmo che quando la mamma, ci mandava a prendere un‑cucchiaio­-di‑conserva‑uno e quat­tro quinti di minz-zèt da Niculèn, ci stava mandando dal pizzica­gnolo e che quindi questo pizzicagnolo altri non era che Niculèn Bòffl.
Ma perché non lo scrivevano sul libro? Evidentemente quello che scriveva il libro dove­va essere un ricco del Nord: lì, Niculèn Bòffl, si chiama Pizzicagnolo. 


A questi compagni, ai quali non ho mai smesso di pensare con nostalgia e con allegria, qualche anno fa dedicai la copertina e qualche brano di un libro di racconti “Nuove leggende lucane” che riproduce l’unica fotografia di gruppo della nostra prima elementare scattata sulle scale dell’allora chiesa di Don Vito. Piccoli volti tesi in punta di piedi a guardare l’obiettivo in uno splendido giorno di scuola con uscita, partita di calcio e fotografia: il massimo.
A distanza di quasi mezzo secolo dalla fine delle elementari, lo scorso agosto, Ignazio Romaniello e Luca e Filippo Pisani che stavano a Irsina per le ferie si fecero venire in mente di organizzare un incontro con i compagni di scuola delle elementari e col passaparola, come ai bei tempi, si mise insieme una squadretta di otto reduci e un affettuoso esterno, l’amico Peppino Coniglio. E così la sera del 17 agosto ci siamo ritrovati in pizzeria Michele Vomero da Bari, Peppino CantacessoFilippo Pisani e il suo gemello Luca Pisani, entrambi da Pisa, Peppino Colasuonno da Parma, Ignazio Romaniello da Sassuolo, Peppino Masiello da Torino e io da Matera; Gaetano Amenta che sta a Irsina non riuscì a raggiungerci mentre Mario Altacera si collegò da Bari via WhatsApp.
La commozione era palpabile. A parte Peppino Blek che incontro spesso a Irsina, avevo visto Colasuonno una sola volta trenta anni fa, Michele e Mario nel ’76 all’università, e tutti gli altri non li vedevo da quasi 50 anni. Rivederne i volti e riconoscerne pian piano i lineamenti, il modo di ridere, l’allegria prudente di alcuni e scoppiettante di altri, mi dava una emozione forte e intensa in un intrigante viaggio indietro nel tempo. Scrutavo i loro volti sessantenni e vedevo distintamente le faccine dei bambini che eravamo e che per una sera si rincontravano pronti a una qualche battaglia, a una qualche esplorazione notturna, a una avvincente avventura. Michele Vomero aveva portato con sé le foto scolastiche e così ci lanciammo nella esplorazione delle geografie migratorie dell’Italia disunita che ci divise: dove sta adesso? 

Gaetano Porro, Salvatore Pisani, Giuseppe Orlandi, Michele Palumbo, Tonino Cancellara e Ignazio Romaniello stanno a Sassuolo. EGiacomino Ziccardi dove vive?
Decclesis, Peppino Masiello, Tommaso Abbruzzese e Saverio Francabandiera abitano a Torino, mentre Tarantino sta ad  Irsina e Nicola Spiniello abita a Savignano di Bologna; Peppino D'Antonio prima stava a Marconia e ora forse in Sardegna. E Michelino Francabandiera dov’è?
Palumbo? Forse è a Bologna, Minguccio Mannarella sta a Roma, e Michele Vomero e Mario Altacera stanno a Bari. Giuseppe Gagliardi sta a Varese, sì, si vede su Facebook, ma non ci sono recapiti telefonici. E Giovanni Maci? Su FaceBook ce ne sono cento.
Grisio, dove sarà? Schinco e Vincenzo Trabace saranno a Milano e Nicola Ferri a Matera; Sardone sta a Irsina e i gemelli Pisani Luchino e Filippo - manco a dirlo - stanno a Pisa: Giuseppe Colasuonno a Parma, Peppino Santomauro a Irsina,  Rizzi ci guarda dall'alto, dice Minguccio.Gaetano Amenta e Peppino Cantacesso stanno a Irsina. E Trabace ? E Spoto? e Francini? e Silvestri?
E così abbiamo deciso di metterci all’opera per rintracciare tutti gli altri compagni di quegli anni, 1962-1967, e di organizzare un grande incontro di tutti i compagni per l,’estate 2017, a 50 anni dalla fine delle elementari. Vogliamo passare tutti insieme una giornata intera di ricordi e di allegria e così potremo dire, come un tempo, sentendoci di nuovo tutti vicini, gli occhi ridenti: sem ricch!!
 (w/cody)*

mercoledì 4 luglio 2018

a Irsina parte il "Whakapapa film Festival"

Irsina negli ultimi anni sta vivendo momenti di grande fervore culturale che attirano l’interesse di un pubblico sempre più numeroso che si aggiunge, evento dopo evento, agli irsinesi che dall’interno sono coinvolti nei diversi momenti organizzativi e infine partecipano e seguono le importanti manifestazioni che si susseguono.
La stagione estiva è appena cominciata, l’Agosto irsinese è ancora di là da venire ma la cittadina è in fermento per accogliere gli spettatori e i partecipanti a spettacoli e manifestazioni teatrali, musicali, cinematografiche di elevata qualità.
Nella conferenza stampa di oggi tenuta nella sala Laura Battista della Biblioteca T. Stigliani di Matera, il sindaco di Irsina Nicola Massimo Morea, e l’assessore Anna Maria Amenta hanno annunciato l’avvio della prima edizione del “Whakapapa film Festival”, che si svolgerà a Irsina dal cinque all’otto luglio 2018.
Whakapapa film Festival”, 
Festival Internazionale del Cinema Documentario,
sarà un appuntamento annuale il cui sottotitolo
Cinema di culture, documentari e cortometraggi”,
spiega chiaramente la cifra della manifestazione fortemente voluta dall’artista Maori Joseph Rickit che, assieme alla moglie, dalla Nuova Zelanda è venuto a vivere a Irsina, affascinato dal Borgo antico, dal panorama spettacolare, dall’aria pulita, dai cibi appetitosi e sopra ogni cosa dalla genuinità e dal calore delle persone che lo hanno accolto nella comunità irsinese.
Whakapapa film Festival, è ulteriore segnale di come la presenza di stranieri venuti a vivere a Irsina abbia innestato un processo virtuoso di inserimento e di fattivo contributo a potenziare il tessuto socio culturale della città. Joseph Rickit, che con l'intervento dell’ambasciatore di Nuova Zelanda inaugurò una sua mostra d’arte lo scorso anno a Matera, parla espressamente di similitudini fra la cultura Maori e quella del Mezzogiorno d’Italia, anche nelle vicende che i capovolgimenti della storia hanno impresso nella esistenza dei rispettivi popoli, colonizzati e dispersi nel mondo.
Il Whakapapa film Festival”, è stato strutturato come i grandi festival del cinema in tutto il mondo: le proiezioni avverranno in tre diversi luoghi della città, quelle diurne all'interno di accoglienti ambienti ben freschi data la stagione, quelli serali all'aperto fra le suggestive piazze della città e gli spettatori potranno scegliere liberamente a quali proiezioni assistere.
I film in concorso sono stati annunciati in conferenza stampa dal Prof. Raffaele Salvaggiola, direttore artistico del Festival, che è in giuria assieme alla regista Maori Seeta Muller, a Renee Maihi e ad Alessandro Turco, e sommariamente descritti da alcuni dei registi presenti che provengono dalla Palestina, dal Belgio, dalla Svizzera, dalla Nuova Zelanda, dalla Francia, oltre che dall’Italia.
I temi trattati nei filmati in concorso sono tutti di altissimo impatto emozionale e carichi al contempo di portati esistenziali e di riflessioni sulla dimensione umana nell’epoca globalizzata che abbatte i confini ma al contempo costruisce muri di pietra e di piombo; un’epoca in cui la barbarie sembra essere di nuovo alle porte mentre i valori e i diritti fondamentali dell’uomo sembrano ogni giorno messi in discussione. Non a caso il termine Whakapapa significa proprio far tesoro delle differenze, vuol dire anzi che sono le differenze a unire e che la vera ricchezza consiste nelle relazioni fra i popoli della terra.
Nel corso delle giornate sarà possibile visitare lo splendido Borgo di Irsina, entrato a fra parte del Club dei Borghi più belli d’Italia con i suoi tesori artistici e architettonici.
Inoltre ricordiamo che filosofi dell’antichità già dicevano che dopo un buon film si gustano meglio le trattorie tipiche montepelosane.
Provare per credere.





la mietutura a Montepeloso


Durante la mietitura e la trebbiatura si usavano fare cinque pasti giornalieri:
u muzzc, una prima colazione verso le sette di mattina;
a fedd, una seconda colazione più consistente verso le dieci,
il pranzo a mezzogiorno,
a murènn, la merenda, al tramonto;
la cena, la minestra calda finalmente, la sera, nella masseria se i lavoratori pernottavano in campagna, alla casa del padrone se tornavano in paese.
Storielle sul comportamento dei lavoratori e dei padroni, proprio a proposito du cumpanagg, non possono mancare. Due mi sembrano rappresentative, perché esaminano il problema dai due punti di vista.

Raccontavano i lavoratori:
un padrone, per a fedd, stende in terra la bisaccia con la spesa e mette fuori: pane, un pezzo di formaggio, qualche scatola di salmone e molte teste di cipolla. È tipico, il salmone, insieme alle uova ad occhio di bove, cioè fritte nell'olio fino a diventare sode, mentre il bianco si rapprende attorno al tuorlo il quale rimane coperto e chiuso nell'albume. Si chiamava salmone quello che in effetti era sgombro conservato.
Insomma, salmone, formaggio e tanta cipolla; il padrone incomincia subito a vantare la cipolla, nella speranza, evidente, che i mietitori la preferiscano al formaggio e al salmone, e dando personalmente l’esempio, servendosi di cipolla con declamata soddisfazione:
-         Aah, quant’è buona ‘sta cipolla, assaggiate, assaggiate.
I mietitori, però, non se ne danno per intesi e continuano a mangiare formaggio e salmone insieme al pane. Solo un giovanottino, figlio di un mietitore, che si accompagna alla paranza come legante, ingenuo e poco esperto, e soprattutto timido, non osa, per le continue insistenze del padrone, toccare formaggio e pesce, accontentandosi delle cipolle. Il padre lo osserva lo scruta, lo guarda e alla fine sbotta:
-         Uagliò, làss a cpòdd ca l’ piec o patròn!

Raccontavano i padroni:
una paranza di mietitori andò nel campo e per prima cosa vollero mangiare. Rassicurarono il padrone dicendo che ciascuno di loro conosceva la propria falce e non c’era, perciò, urgenza alcuna. Al momento buono ognuno avrebbe fatto vedere quel che valeva. Più tardi, quando il sole si era fatto cocente chiesero al padrone di fare a fedd e poi si stesero a schiacciare un pisolino. Tanto, col fresco, tu conosci la falce tua, io conosco la mia, il campo sarebbe stato mietuto in meno che non si dica. Così giunse l’ora del pranzo e quello della murènn, ma il campo rimase in piedi com’era al mattino. Solo la spesa era stata liquidata.

Ma c’è una terza storiella che fa ridere tanto i lavoratori quanto i padroni, volendo sottolineare solo la stupidità di certe donne. Una di queste, al momento del pranzo mise fuori un recipiente, solitamente usato come vaso da notte in quelle case prive di impianti igienici (che allora erano quasi tutte e che oggi risultano ancora la maggior parte), e nel quale aveva preparato la minestra fredda. È un vaso di creta che rassomiglia molto a un alto cappello a tuba rovesciato, che in dialetto si chiama u prees. Naturalmente gli occhi di tutti, padrone compreso, mostrano tutto il turbamento possibile in casi di questo genere. La padrona, però, senza scomporsi: Eh sì – esclamò – ha fatto diciassette anni di servizio ma l’ho sciacquato ben bene con l’acqua fresca.

Tratto dal libro di 
Michelino Dilillo 


IRSINA 
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