Montepeloso
Tradizioni, storia, curiosità, immagini, lingua.
lunedì 30 luglio 2018
venerdì 27 luglio 2018
Irsina, Il cinema LUCANIA
Il grande cinema Lucania di
Irsina dalla metà del secolo scorso, per decenni, ha accompagnato lo sviluppo
culturale ed emozionale di varie generazioni di Irsinesi.
In piazza Andrea
Costa un’insegna luminosa azzurra, non sempre accesa annunciava “CINEMA”; con gli anni i neon si
consumarono e rimasero fortunosamente illuminate le prime quattro lettere “cine”
così la scritta dava anche un senso di modernità linguistica alla struttura che
pubblicizzava. Il cinema aveva una capienza di 607 posti a sedere e per le proiezioni
più attese riusciva a ospitare almeno altri 100 spettatori seduti sulle scale o
in piedi poggiati alle pareti.
U c’nm Mauròcc - si diceva
comunemente per distinguerlo dal cinema parrocchiale San Francesco che
accoglieva pubblico e monelli nei locali della omonima chiesa nel paese
vecchio, e dal Cinema Impero gestito dalla famiglia Loreto in un magazzino a
piano terra del palazzo ducale e che era stato in funzione in Piazza Garibaldi
sino al 1952, quando fu rilevato e chiuso dai proprietari del Cinema Lucania
che già era in attività da circa un anno.
Il Cinema
Lucania negli anni ’60 proiettava tutti i migliori film che circolavano nelle sale nazionali, sia pure con qualche
mese di ritardo, quando magari le pellicole uscivano dai circuiti di "prima visione" e avevano prezzi di
noleggio più abbordabili e durante l’estate dava fondo al meglio della
filmografia americana degli anni ‘40 e ‘50. Era una sala di proiezione ben
strutturata, con la platea, la
galleria, un piccolo foyer dove si sostava non proprio in silenzio ad aspettare
l’inizio degli spettacoli, i bagni e una minuscola cabina di proiezione. Il botteghino era in un angolo accanto
alla scalinata che portava in galleria dove i primi tre posti centrali erano
riservati alle autorità e quindi chiusi da una catenella. Nel corso dell’anno 1965
contò 112.950 spettatori con punte massime nei mesi di dicembre con 14.024
biglietti venduti e di maggio con 13.102 biglietti.
Ci ho visto di
tutto in quella sala nei miei primi undici anni di vita e anche oltre: da Ben-Hur a Catene, dai grandi "peplum" a tutti i western classici, Il Grande cielo, Un
dollaro d’onore; dalla fantascienza giapponese di Godzilla, ai noire americani e francesi, F.B.I., Rififì, da Totò e Stanlio e Ollio al Dottor Zivago oltre a una infinita serie di pellicole sui pirati.
In platea specie
di domenica con il pienone, c'era gazzarra, un via vai continuo di ragazzi che
chiassavano e facevano hiss e tres dalle latrine,
impegnati in qualche battaglia emulativa delle avventure del film o in qualche
scorribanda alternativa se il film era noioso o anche perché lo avevano già
visto due volte almeno, per sfruttare al massimo il biglietto pagato. Si andava
al cinema anche per vedere il film, spesso a prescindere dal titolo
perché era uno svago in sé. In galleria, di sopra, il biglietto costava di più
ma si stava più tranquilli. Un poco.
Ogni giorno
davano un film diverso, tranne la domenica quando invece ripetevano lo stesso
del giorno prima, ma la festa veniva quando la domenica per attirare più
spettatori ne davano due di pellicole, due
diversi film al prezzo di uno solo, uno dietro l’altro, così davvero al
cinema ci si passava il pomeriggio intero sino a sera, per vedere almeno due
volte le due pellicole in cartellone. In quei pomeriggi nel cinema accadeva di
tutto, battaglie organizzate per la conquista della prima fila, lancio di
oggetti, urla varie a chiosare le scene più salienti e l’apoteosi si raggiungeva
quando sullo schermo si fermava l’immagine e un puntino della scena si
allargava sempre di più verso i bordi del fotogramma: si fondeva la pellicola e
l’operatore accendeva subito le luci in sala: i fischi e le urla a quel punto,
oltre le invettive all’indirizzo del conosciutissimo uomo alla macchina
somigliavano dì più a una sommossa di piazza che a una fruizione della settima
arte, tanto che la maschera, impegnata a
tentare di mantenere l’ordine pubblico, spesso concludeva l’inseguimento di qualche
scalmanato con una bella pedata di punta o di tacco.
Mi raccontano
che quando per la prima volta negli anni ’50 diedero "Catene" con Amedeo
Nazzari e Ivonne Sanson, in
paese scoppiò una rivoluzione: si faceva la fila fuori della porta del cinema fin
dalla mattina e lo proiettarono per molti giorni di seguito, tanto atteso era
quell’inguardabile film che faceva versare calde lacrime ai cuori più induriti.
A Irsina, nei
primi anni ’60 eravamo in diecimila circa e in alternativa al Lucania c'era il cinema parrocchiale "San
Francesco" dove a prezzi stracciati davano film edificanti, Marcellino pane e vino, vite di santi,
e qualche Gianni e Pinotto (la
retorica delle guerre imperialiste USA in Indocina era considerata edificante)
e qualche Zorro tutto spezzettato.
Anche la parrocchia dell’Immacolata si era attrezzata per proiettare di tanto
in tanto qualche film, ma gratis. Irsina era un paese a forte vocazione
comunista e si consumavano tutte le iniziative possibili, in quegli anni di
forti frizioni sociali, per tentare di allontanare le coscienze dei ragazzi
dalle correnti idee comuniste: da un lato il commissariato di PS con la polizia
politica manette e manganello e dall’altro le parrocchie coi filmini Paolini su
San Tarcisio. All’Immacolata non chiedevano denaro ma per entrare bisognava
esibire un mezzo bigliettino di carta colorata firmato dal prete per ottenere
il quale occorreva aver frequentato il catechismo
durante la settimana, ed erano inflessibili, le sante donne della canonica:
niente catechismo, niente biglietto e quindi niente cinema; a nulla valevano i
pianti di bambini che mai avrebbero avuto le 40 lire in tasca per andare al
cinema vero e che, fra lo scherno dei compagni in sovrapprezzo, venivano
implacabilmente lasciati fuori dal piccolo cinema per opera della bontà divina
che animava le pinzochere di quelle sacrestie perché non avevano l’altro mezzo
biglietto, o ne avevano solo un pezzetto ricettato e sgualcito, tratto dalla stessa
tasca sdrucita dove custodivano nu pizzl, na pret ca taggh e na cendra tort.
Epocale fu
intorno al 1965 l’annuncio fra i provini – così chiamavamo i trailers
– imminente su questo schermo: “Angelica,” il mitico film del 1964 con Michelle Mercier che
narra le vicende amorose di una bellissima contessa e degli intrighi di potere
alla corte del Re Sole. Probabilmente qualche scena audace nel trailer aveva
ingenerato in paese, specie fra i ragazzini, la convinzione di poter assistere
in quel film a succulenti e generosi spettacoli erotici che, in quegli anni,
erano non rari, ma praticamente impensabili nell’Italia clericale che
sequestrava i film di Pasolini e di Bertolucci e che in TV metteva la
calzamaglia alle gambe delle gemelle
Kessler. Intendiamoci, trattavasi di scene che oggi trasmetterebbe la rai
nazionale alla tivvu dei ragazzi, ma che allora, invece, infuocavano
l’immaginazione dei maschi irsinesi con l’ipotalamo surriscaldato dalla pressione
ormonale della giovinezza e dalla oppressiva cappa perbenista che animava i
costumi dell’epoca.
In quei giorni un
fremito scuoteva i maschi del paese di ogni età, dai 7 ai diciassette ai 27 ai
107 anni: ANGELICA! E finalmente il
cartellone! Quello grande all’arco di Sant’Eufemia e quello piccolo su corso
Musacchio. Sabato e domenica, al cinema Lucania: Angelica. Uno spasmo,
l’attesa; fra ragazzini ci si guardava muti, il pomo d’Adamo ballava per
deglutire il cuore che se ne era salito in gola: Ouì a Lalòcc, ha fatt già l’ucch’
ròss.
Angelica, prossimamente! E si andava a cinema nei giorni precedenti, per vedere e
rivedere il “provino” sperando potesse scappare qualche bella scena intrigante
e c’erano quelli che millantavano che la sera prima, sul tardi, l’operatore avesse
mandato per sbaglio una scena in più …
Non si parlava
d’altro, la tensione era alle stelle e il sabato mattina … la doccia fredda: il
manifesto annunciava sì stasera - a grande richiesta ANGELICA,
ma una striscia bianca trasversa, per ironia proprio sul petto della bionda
Mercier, annunciava – perfida - la
fine d’ogni illusione: vietato ai minori
di anni 14.
La fila sin dal
primo pomeriggio davanti al cinema Lucania era tutta maschile: un film di cappa
e spada quale era quel film, un casto fumettone alla Dumas ma molto meno denso
di letteratura, inspiegabilmente a Irsina era atteso - manco fosse Emmanuelle
l’antivergine di 20 anni più tardi - come la messianica rivoluzione sessuale di Wilhelm
Reich.
Alle cinque del
pomeriggio, all’inizio del secondo spettacolo, approfittando della ressa che si
creava fra quelli che uscivano sgomitando e quelli che aspettavano di entrare
sgomitando, compattati ma in ordine sparso tentammo la fortuna sgattaiolando
fra stinchi e ginocchia di uomini adulti, acquattati nei sottopancia degli
anzianotti col cappello che facevano la faccia indifferente come se stessero in
fila dal dottore, provammo a impizzarci, ma la manovra, benché ben studiata, non ebbe successo: la
maschera pareva un polipo dalle cento braccia, ci agguantò subito uno per uno e
ci buttò sul marciapiede a ruzzolare scarpe e tutto e l’ultimo di noi lo lanciò
come si tira una palla al bowling a rotolare sull’asfalto. Qualcuno fra i più
alti e grandicelli era riuscito a fronteggiare il bigliettaio giurando di avere
i 14 anni richiesti al varco del paradiso ma poi ci raccontò che gli avevano
chiesto la carta di identità o un altro documento per dimostrarlo ed era finito
fuori in villa a sciucuò u pizzl.
Affranti e
sconfitti sciogliemmo il commando e ci ritirammo a casa a meditare
sull’ingiustizia e le terribili discriminazioni della vita: se una cosa è bella
e piacevole, perche diavolo mai debbano potersela godere solo i più grandi? Prima
del terzo spettacolo chiesi, ma con poche speranze, anche a mio padre, assiduo
mio compagno di serali proiezioni, di portarmi con sé al cinema e lui promise:
lunedì. Andiamoci stasera, gli dissi con finta aria distratta; no, rispose:
oggi è proibito. Tante grazie. Mi
arresi e rimasi in malinconia sino alla scialba sera della domenica.
Me ne stavo
sbuffante a sventolare pagine di Blek Macigno quando a un tratto bussarono alla
porta; mamma aprì e accolse due suoi ex alunni che avevano terminato le elementari
un paio di anni prima. Mia madre accolse con calore la inusitata visita e dopo
brevi convenevoli ne chiese la ragione. I tre si scambiarono un muto sguardo e
il più alto prese il fiato ed estratta dalla tasca la pagella sgualcita che
aveva ricevuto a fine scuola, propose alla maestra di aggiustare, con la sue
stessa grafia, la data di nascita così che potesse risultare esser nato due
anni prima e si avventurò a spiegare che gli serviva per andare a fare un
lavoro con lo zio che doveva andare alla Germania e che non mandava soldi a
casa e che il dramma dell’emigrazione e degli orsi polari in estinzione sulla
calotta dell’Anantartico meridionale gli toglieva il sonno anche alla nonna che
poi era pure una commara.
Mia madre non la
bevve e tanto si mise a insistere con i tre furbacchioni che alla fine u
chiù m’ninnaridd confessò che gli serviva per entrare al cinema a
vedere Angelica colla carta giusta per dirsi quattordicenni abili e arruolati.
Non la
spuntarono.
Poi il paese
piano piano prese a svuotarsi: si partiva, si emigrava, già molti dei miei
compagni avevano il padre in Germania o a Milano e tanti a Sassuolo. Lì ci avevo un grappolo di zii e quando Tito Stagno commentava lo sbarco sulla Luna io ero proprio a Sassuolo a casa
dei miei cugini: loro, tredicenni, andavano al lavoro e io li aspettavo
guardando l’allunaggio e decine di film di fantascienza in una vecchia TV in
bianco e nero che ogni tanto aveva bisogno di uno schiaffetto sul lato destro
per ritrovare l’audio che già subito di nuovo si arrochiva. A sera, dopo cena,
andavamo al cinema, un lamione di periferia improvvisato e senza pendenza dove
il suono rimbombava: nulla a che fare con il nostro Cinema Lucania. Il cugino
che si alzava presto per andare in officina ogni tanto si appisolava, a tredici
anni la fatica si sente forse di più, ma spesso era l’audio rombante o la
pellicola scadente a far venire il sonno a tutti, mentre sembrava di essere a
casa quando si spezzava la pellicola e partivano i fischi e lazzi dalle file
ultime vicino i cessi. Una sera davano un film sul martirio di non so più quale
santo il cui realismo consisteva nel martirizzare anche gli spettatori con
dialoghi avvilenti e lacrimose scene patetiche. A metà del primo tempo la
platea era allo stremo dello scassamento umorale e si cominciarono a contare i
primi suicidi fra le file sotto il telone: chi si rivoltava nella seggiola di
legno, chi sospirava, chi tentava di dormire, chi canticchiava l’ultimo sanremo
fino a quando un paesano sbottò dalla platea, si alzo in piedi sulla sedia e
con le mani a tromba sulla bocca urlò all’indirizzo della proiezione sassolese:
“Stivali’, mitt o secònd !!”
E ci sentimmo
subito a casa.
I miei compagni
di un tempo avevano raggiunto padri e fratelli a Sassuolo, a Novi Ligure, a
Torino, a Parma a Pisa e io andai a Matera con la famiglia sin dal 1967. Per
tutti gli anni ’70 tornare a Irsina era una festa e un dolore, un lancinante
dispiacere e un abbraccio intenso con chi ancora stava là. Natale, agosto,
Sant’Eufemia. Non sempre. Sempre più di rado. Tutti.
Gli anni ’80 con
il proliferare dei canali TV, furono fatali per centinaia di sale di proiezione
cinematografica che per sopravvivere, dopo infinite sequele di pessimi film di
Kung-fu sulla scia del mito (inspiegabile mito di uno bravo nientemeno che a
dare acrobatiche mazzate al prossimo) di Bruce Lee, si ridussero a proiettare
avvilenti pellicole porno che attiravano un pubblico sempre più ristretto e
sparuto e infine chiusero del tutto. La gente rimaneva in casa a vedere la
pubblicità sulle emittenti di B. e poi anche sulla Rai e non andava più al
cinema. Chiuse il cinema Lucania di Irsina, a Matera chiuse il Quinto mentre
interventi della mano pubblica consentirono ad altre sale di rimanere attive,
sia pure solo per proiezioni festive; ma il fascino della sala buia ormai
attirava pochi fedeli cinefili resi meno assidui anche dall'assurdo divieto di
fumare in quei locali in vigore oramai dal 1975.
Uno dei ricordi
più belli della mia infanzia cinefila è il raggio di proiezione che dalla
galleria si slanciava in basso dalla balconata sulla platea a colpire lo
schermo bianco; i raggi cangiavano colore e le volute di fumo di sigarette che
volava libero nella sala disegnavano fra quei raggi mobili, meravigliosi
arabeschi colorati che a volte materializzavano un viso, a volte un cane, a
volte una nave, un vapore pieno di gente che parte: un film nel film sull’onda
della fantasia. Il Cinema Lucania è stato per gli Irsinesi del secondo novecento
la materia dei sogni, la lanterna magica della conoscenza e dell’immaginario,
la cassa di risonanza delle emozioni: un eccezionale momento di crescita
culturale della nostra comunità.
Ora al posto del
cinema Lucania ci sta un supermercato.
Non ci sono mai entrato, non potrei: la
commozione mi ucciderebbe.
mercoledì 11 luglio 2018
compagni di scuola - IRSINA 1962 - 1967 - Dal DIARIO IRSINESE
Giravamo armati sino ai denti, la fionda - a frècc -
alla cintola e na sacc a zammèl d lapìdd, il passante dei pantaloni slabbrato a furia di portarci la spada di legno: erano tempi duri e bisognava stare all’erta. Le armi in casa non si potevano tenere e dovevamo nasconderle nei fossi, negli scantinati, sotto le caforchie di spine, così che il nemico non potesse trovarle e usarle contro di noi. Peppino Cantacesso detto Blek aveva na cascitedd di legno color metallo nascosta sotto il lettone della madre con una piccola serratura; la chiave lui la nascondeva dietro il contatore grande dell’acqua nel portone. Là ci teneva le armi segrete, la freccia grossa, con la forcella di ferro tondino arrotolato, e due potenti nastri elastici presi da una camere d’aria non camilata uniti al vertice dalla pezza, un ritaglio di cuoio per poggiare i proiettili, scelto con cura durante le battute di caccia nei fossi e nelle discariche fra i resti di scarpacce sconciate con le fauci spalancate e i chiodi aguzzi come zanne; le munizioni erano lapilli tondi e pesanti selezionati nei fossi quando si andava per canne.
alla cintola e na sacc a zammèl d lapìdd, il passante dei pantaloni slabbrato a furia di portarci la spada di legno: erano tempi duri e bisognava stare all’erta. Le armi in casa non si potevano tenere e dovevamo nasconderle nei fossi, negli scantinati, sotto le caforchie di spine, così che il nemico non potesse trovarle e usarle contro di noi. Peppino Cantacesso detto Blek aveva na cascitedd di legno color metallo nascosta sotto il lettone della madre con una piccola serratura; la chiave lui la nascondeva dietro il contatore grande dell’acqua nel portone. Là ci teneva le armi segrete, la freccia grossa, con la forcella di ferro tondino arrotolato, e due potenti nastri elastici presi da una camere d’aria non camilata uniti al vertice dalla pezza, un ritaglio di cuoio per poggiare i proiettili, scelto con cura durante le battute di caccia nei fossi e nelle discariche fra i resti di scarpacce sconciate con le fauci spalancate e i chiodi aguzzi come zanne; le munizioni erano lapilli tondi e pesanti selezionati nei fossi quando si andava per canne.
E di canna erano le temibili lance indiane indispensabili nell’arsenale insieme alle frecce indiane: una cordicella cioè tendeva ad arco un raggio di ombrello scassato mentre un altro raggio, meticolosamente strofinato sul tufo per appuntirlo, faceva da saetta e Aldino un giorno ci stava lasciando un occhio durante un combattimento. L’arsenale si completava con l’uso, per fortuna saltuario, di missili balistici il cui lancio era subordinato all’approvvigionamento - furtivo e clandestino - di pietre di acetilene da sotto le bancarelle dei nocellai. In terra si scavava un canaletto che conduceva a una buca, nella buca si posizionava un sassolino di acetilene e lo si copriva con rugginoso barattolo di conserve raccattato in qualche mondezzaio; lo si compattava con un po’ di terra e si lasciava correre dell’acqua lungo il canaletto. Appena si sentiva friggere il gas sviluppato dalla pietra con l’acqua, con un zippo lungo acceso in punta si dava fuoco al gas e il barattolo partiva in cielo con un botto, come un missile vero a perdersi nell’infinito.
Le battaglie erano frequenti, i tradtur d’acchedavann u pozz non rispettavano i trattati e spesso la parola passava alle armi, con fitte sassaiole da dietro l’avviamento e quando quelli sconfinavano, dalle frecce si passava alle spade e al corpo a corpo, infuocando di sudore e polvere la spianata dei Cappuccini.
Le armi si riponevano quando veniva dichiarata a sfet, la sfida. Partivano i reclutamenti e quando eravamo tutti presenti, con gli occhi ridenti dicevamo: sem ricch!, siamo ricchi. Ricchi di compagnia sicura. E forte.
La sfida era una partita di calcio dalla durata indefinita che si svolgeva in uno dei campetti più accreditati: dietro le scuole a ridosso della macchina del catrame dimenticata là da chissà quale ditta, oppure mmenz o larghìr, oppure, per le solennità, dietro a chiis Donvìt, un fabbricato in tufo nato per uso industriale o scolastico, adattato a parrocchia e dislocato nei pressi d u fuss u macidd, il fossato che trasportava liquami dal mattatoio sin fuori dell’abitato passando vicino al grigio pozzo chiuso che stava dove oggi corre una pizzeria.
Le sfide di calcio erano interminabili, le porte segnate da due sassi ai lati e l’area di rigore col gesso di tufo strofinato a terra. Interminabili - a bordo campo Peppin Granntrotterellava, gli occhi a terra come un vero guardalinee - e a regole variabili, dallapunizion in offs, al cambiafall e all’esecrabile manimani preterintenzionale certificato in area dal l’aggh vist hei di almeno due giocatori; infinite galoppate dal dopopranzo sino a notte, sino a quando qualche mamma non veniva scopa alla mano a recuperare l’ala sinistra o il portiere o, peggio, il padrone del pallone. Infiniti scarti e puntazze, palestre di talenti veri: goleador, difensori inviolabili, attaccanti temibili in azioni personali, simulatori professionisti di fallo con dolore, svenimento o pianto alla bisogna; io ero fra quelli cheavevna dè ntralc all’avversario, cioè un brocco totale e la mia specialità erano i lisci carpiati con lancio della scarpa o senza lancio della scarpa, seconda della resistenza dei lacci, tanto che l’orchestra Casadei si era interessata alle mie doti e mi volevano in Romagna insieme al grande Saverio Mercadante che cercava di essere più liscio di me e a volte ci riusciva pure.
A scuola era d’obbligo il grembiule nero abbottonato dietro, come il prete al contrario, il colletto bianco e il fiocco blu, ma, per fortuna, il risultato uniforme non era mai raggiunto e non solo per le diverse sfumature di nero: chi senza fiocco, chi col fiocco e senza colletto chi senza nulla affatto, chi con lo scudetto e chi con i numeri romani cuciti in petto con un nastrino bianco. Tornava utile il grembiule all’uscita da scuola per la cavalcata di Zorro: sfilate le maniche si girava al contrario e, legato con l’ultimo bottone stretto alla gola, sventolava nella corsa come un nero mantello al vento e già questo bastava per sentirselo sotto davvero, il cavallo di Zorro.
In classe eravamo stipati in una bella stanza che al pomeriggio si riempiva di sole giallo, i primi banchi fin sotto la lavagna, tre file, gli ultimi appiccicati agli attaccapanni. Il maestro metteva il cappello sulla cattedra e ci parlava sempre con tono cordiale e ci guidava fra le pagine del libro nei misteri della lettura. E quel libro, concepito e scritto in quel nord Italia che aspettava o già aveva rapito molti dei nostri padri e zii e fratelli, di misteri ne conteneva a iosa.
Il nostro ottimo libro di letture a pagina 26 narrava del bambino Salvatore che accompagnando la mamma dal pizzicagnolo, voleva portare da solo, il bravo ometto, tutti i pacchi della spesa. A ogni rilettura del brano noi ci si voltava ridacchiando a guardareSalvatore Pisani, ché era la prima volta che sul libro c’era un nome nostro, dopo gli Arturo, i Fabio e gli Alessandro che sino ad allora avevamo incontrato, personaggi estranei assoluti per noi sinanche nei nomi. Noi eravamo 42, più della metà si chiamava Peppino, e fra gli altri nessun Riccardo e nessun Giulio. Trovare un Salvatore nel libro era una svolta epocale e ci giravamo tutti a guardarlo quando il lettore di turno lo nominava, Salvatore, e quello agitava su e giù la mano a imbuto, ma era contento.
Una bella lettura edificante che parlava di buste della spesa e di generosità da ometti, rimase impressa nella memoria di tutta la compagnia perché secondo l'antico metodo della decimazione, il maestro domandò a caso tra le falangi che cosa significasse “pizzicagnolo”.
Lo sguardo attonito degli interpellati a turno esprimeva molto sforzo di caldaie e tanto smarrimento nell'attesa della scarica di carcarozzi cotognetti e calcinculo che maturavano in silenzio tra lavagna e crocefisso, anche perché - fondamentalmente - ci mancava proprio il concetto base dell'aver da trasportare voluminosi e pesanti sacchetti di generi alimentari acquistati detti "spesa", esperienza del tutto ignota alla platea.
Qualcuno bluffò dicendo "non mi ricordo" e venne fucilato nella schiena; quelli che la buttarono sull'etimologia biascicando fesserie suicagno‑lini furono decapitati sommariamente e riabilitati solo nell'89 con un Nobel per la pace secondo l'usanza antisovietica di quei giorni, altri tacendo si accucciarono sotto il banco come colti da improvvido torpore.
Nessuno sapeva cosa diavolo fosse questo fetente d'un pizzicagnolo.
Poi il maestro, smontato che ebbe il patibolo e sfilatosi il cappuccio nero dalla testa, ce lo spiegò che il pizzicagnolo è una specie di salumiere che vende cose da mangiare come le scatolette della carne in conserva, le delicatessen, le salsicce e, a volte, anche il pane.
Allora capimmo che quando la mamma, ci mandava a prendere un‑cucchiaio-di‑conserva‑uno e quattro quinti di minz-zèt da Niculèn, ci stava mandando dal pizzicagnolo e che quindi questo pizzicagnolo altri non era che Niculèn Bòffl.
Ma perché non lo scrivevano sul libro? Evidentemente quello che scriveva il libro doveva essere un ricco del Nord: lì, Niculèn Bòffl, si chiama Pizzicagnolo.
A questi compagni, ai quali non ho mai smesso di pensare con nostalgia e con allegria, qualche anno fa dedicai la copertina e qualche brano di un libro di racconti “Nuove leggende lucane” che riproduce l’unica fotografia di gruppo della nostra prima elementare scattata sulle scale dell’allora chiesa di Don Vito. Piccoli volti tesi in punta di piedi a guardare l’obiettivo in uno splendido giorno di scuola con uscita, partita di calcio e fotografia: il massimo.
A distanza di quasi mezzo secolo dalla fine delle elementari, lo scorso agosto, Ignazio Romaniello e Luca e Filippo Pisani che stavano a Irsina per le ferie si fecero venire in mente di organizzare un incontro con i compagni di scuola delle elementari e col passaparola, come ai bei tempi, si mise insieme una squadretta di otto reduci e un affettuoso esterno, l’amico Peppino Coniglio. E così la sera del 17 agosto ci siamo ritrovati in pizzeria Michele Vomero da Bari, Peppino Cantacesso, Filippo Pisani e il suo gemello Luca Pisani, entrambi da Pisa, Peppino Colasuonno da Parma, Ignazio Romaniello da Sassuolo, Peppino Masiello da Torino e io da Matera; Gaetano Amenta che sta a Irsina non riuscì a raggiungerci mentre Mario Altacera si collegò da Bari via WhatsApp.
La commozione era palpabile. A parte Peppino Blek che incontro spesso a Irsina, avevo visto Colasuonno una sola volta trenta anni fa, Michele e Mario nel ’76 all’università, e tutti gli altri non li vedevo da quasi 50 anni. Rivederne i volti e riconoscerne pian piano i lineamenti, il modo di ridere, l’allegria prudente di alcuni e scoppiettante di altri, mi dava una emozione forte e intensa in un intrigante viaggio indietro nel tempo. Scrutavo i loro volti sessantenni e vedevo distintamente le faccine dei bambini che eravamo e che per una sera si rincontravano pronti a una qualche battaglia, a una qualche esplorazione notturna, a una avvincente avventura. Michele Vomero aveva portato con sé le foto scolastiche e così ci lanciammo nella esplorazione delle geografie migratorie dell’Italia disunita che ci divise: dove sta adesso?
Gaetano Porro, Salvatore Pisani, Giuseppe Orlandi, Michele Palumbo, Tonino Cancellara e Ignazio Romaniello stanno a Sassuolo. EGiacomino Ziccardi dove vive?
Decclesis, Peppino Masiello, Tommaso Abbruzzese e Saverio Francabandiera abitano a Torino, mentre Tarantino sta ad Irsina e Nicola Spiniello abita a Savignano di Bologna; Peppino D'Antonio prima stava a Marconia e ora forse in Sardegna. E Michelino Francabandiera dov’è?
E Palumbo? Forse è a Bologna, Minguccio Mannarella sta a Roma, e Michele Vomero e Mario Altacera stanno a Bari. Giuseppe Gagliardi sta a Varese, sì, si vede su Facebook, ma non ci sono recapiti telefonici. E Giovanni Maci? Su FaceBook ce ne sono cento.
E Grisio, dove sarà? Schinco e Vincenzo Trabace saranno a Milano e Nicola Ferri a Matera; Sardone sta a Irsina e i gemelli Pisani Luchino e Filippo - manco a dirlo - stanno a Pisa: Giuseppe Colasuonno a Parma, Peppino Santomauro a Irsina, Rizzi ci guarda dall'alto, dice Minguccio.Gaetano Amenta e Peppino Cantacesso stanno a Irsina. E Trabace ? E Spoto? e Francini? e Silvestri?
E così abbiamo deciso di metterci all’opera per rintracciare tutti gli altri compagni di quegli anni, 1962-1967, e di organizzare un grande incontro di tutti i compagni per l,’estate 2017, a 50 anni dalla fine delle elementari. Vogliamo passare tutti insieme una giornata intera di ricordi e di allegria e così potremo dire, come un tempo, sentendoci di nuovo tutti vicini, gli occhi ridenti: sem ricch!!
(w/cody)*
mercoledì 4 luglio 2018
a Irsina parte il "Whakapapa film Festival"
La stagione estiva è appena
cominciata, l’Agosto irsinese è
ancora di là da venire ma la cittadina è in fermento per accogliere gli
spettatori e i partecipanti a spettacoli e manifestazioni teatrali, musicali,
cinematografiche di elevata qualità.
Nella conferenza stampa di oggi tenuta
nella sala Laura Battista della Biblioteca
T. Stigliani di Matera, il sindaco di Irsina Nicola Massimo Morea, e l’assessore Anna Maria Amenta hanno annunciato l’avvio della prima edizione del
“Whakapapa film
Festival”, che si svolgerà a Irsina dal cinque all’otto
luglio 2018.
“Whakapapa
film Festival”,
Festival Internazionale del Cinema Documentario,
Festival Internazionale del Cinema Documentario,
sarà un
appuntamento annuale il cui sottotitolo
“Cinema
di culture, documentari e cortometraggi”,
spiega
chiaramente la cifra della manifestazione fortemente voluta dall’artista Maori Joseph Rickit che,
assieme alla moglie, dalla Nuova Zelanda è venuto a vivere a Irsina, affascinato
dal Borgo antico, dal panorama spettacolare, dall’aria pulita, dai cibi appetitosi
e sopra ogni cosa dalla genuinità e dal calore delle persone che lo hanno
accolto nella comunità irsinese.
Whakapapa film Festival, è ulteriore segnale di come la presenza di stranieri venuti a
vivere a Irsina abbia innestato un processo virtuoso di inserimento e di
fattivo contributo a potenziare il tessuto socio culturale della città. Joseph Rickit, che con l'intervento dell’ambasciatore
di Nuova Zelanda inaugurò una sua mostra d’arte lo scorso anno a Matera, parla
espressamente di similitudini fra la cultura Maori e quella del Mezzogiorno d’Italia,
anche nelle vicende che i capovolgimenti della storia hanno impresso nella
esistenza dei rispettivi popoli, colonizzati e dispersi nel mondo.

I film
in concorso sono stati annunciati in conferenza stampa dal Prof. Raffaele Salvaggiola, direttore artistico
del Festival, che è in giuria assieme alla regista Maori Seeta Muller, a Renee Maihi e ad Alessandro
Turco, e sommariamente descritti da alcuni dei registi presenti che
provengono dalla Palestina, dal Belgio, dalla Svizzera, dalla Nuova
Zelanda, dalla Francia, oltre
che dall’Italia.
I temi
trattati nei filmati in concorso sono tutti di altissimo impatto emozionale e
carichi al contempo di portati esistenziali e di riflessioni sulla dimensione
umana nell’epoca globalizzata che abbatte i confini ma al contempo costruisce
muri di pietra e di piombo; un’epoca in cui la barbarie sembra essere di nuovo
alle porte mentre i valori e i diritti fondamentali dell’uomo sembrano ogni
giorno messi in discussione. Non a caso il termine Whakapapa significa
proprio far tesoro delle differenze, vuol dire anzi che sono le differenze a
unire e che la vera ricchezza consiste nelle relazioni fra i popoli della
terra.
Nel
corso delle giornate sarà possibile visitare lo splendido Borgo di Irsina,
entrato a fra parte del Club dei Borghi più belli d’Italia con i suoi tesori
artistici e architettonici.
Inoltre
ricordiamo che filosofi dell’antichità già dicevano che dopo un buon film si
gustano meglio le trattorie tipiche montepelosane.
Provare
per credere.
la mietutura a Montepeloso
Durante la mietitura e la trebbiatura si usavano
fare cinque pasti giornalieri:
u muzzc, una prima colazione verso le
sette di mattina;
a fedd, una seconda colazione più
consistente verso le dieci,
il pranzo a mezzogiorno,
a murènn, la merenda, al tramonto;
la cena, la minestra calda
finalmente, la sera, nella masseria se i lavoratori pernottavano in campagna,
alla casa del padrone se tornavano in paese.
Storielle sul comportamento dei lavoratori e dei
padroni, proprio a proposito du cumpanagg, non possono mancare.
Due mi sembrano rappresentative, perché esaminano il problema dai due punti di
vista.
Raccontavano i
lavoratori:
un padrone, per a fedd,
stende in terra la bisaccia con la spesa
e mette fuori: pane, un pezzo di formaggio, qualche scatola di salmone e molte
teste di cipolla. È tipico, il salmone, insieme alle uova ad occhio
di bove, cioè fritte nell'olio fino a diventare sode, mentre il bianco si
rapprende attorno al tuorlo il quale rimane coperto e chiuso nell'albume. Si
chiamava salmone quello che in effetti era sgombro conservato.
Insomma, salmone, formaggio e tanta cipolla; il padrone incomincia
subito a vantare la cipolla, nella speranza, evidente, che i mietitori la
preferiscano al formaggio e al salmone, e dando personalmente l’esempio,
servendosi di cipolla con declamata soddisfazione:
-
Aah, quant’è buona ‘sta
cipolla, assaggiate, assaggiate.
I mietitori, però, non se ne danno per intesi e
continuano a mangiare formaggio e salmone insieme al pane. Solo un giovanottino,
figlio di un mietitore, che si accompagna alla paranza come legante,
ingenuo e poco esperto, e soprattutto timido, non osa, per le continue
insistenze del padrone, toccare formaggio e pesce, accontentandosi delle
cipolle. Il padre lo osserva lo scruta, lo guarda e alla fine sbotta:
-
Uagliò, làss a cpòdd ca l’ piec o patròn!
Raccontavano i
padroni:
una paranza di mietitori andò nel campo e per prima
cosa vollero mangiare. Rassicurarono il padrone dicendo che ciascuno di loro
conosceva la propria falce e non c’era, perciò, urgenza alcuna. Al momento
buono ognuno avrebbe fatto vedere quel che valeva. Più tardi, quando il sole si
era fatto cocente chiesero al padrone di fare a fedd e poi si stesero a
schiacciare un pisolino. Tanto, col fresco, tu
conosci la falce tua, io conosco la mia, il campo sarebbe stato
mietuto in meno che non si dica. Così giunse l’ora del pranzo e quello della murènn,
ma il campo rimase in piedi com’era al mattino. Solo la spesa era stata
liquidata.
Ma c’è una terza storiella che fa ridere tanto i
lavoratori quanto i padroni, volendo sottolineare solo la stupidità di certe
donne. Una di queste, al momento del pranzo mise fuori un recipiente,
solitamente usato come vaso da notte in quelle case prive di impianti igienici
(che allora erano quasi tutte e che oggi risultano ancora la maggior parte), e
nel quale aveva preparato la minestra fredda. È un vaso di creta che
rassomiglia molto a un alto cappello a tuba rovesciato, che in dialetto si
chiama u prees. Naturalmente gli occhi di
tutti, padrone compreso, mostrano tutto il turbamento possibile in casi di
questo genere. La padrona, però, senza scomporsi: Eh sì – esclamò – ha fatto diciassette
anni di servizio ma l’ho sciacquato ben bene con l’acqua fresca.
Tratto dal libro di
Michelino Dilillo
IRSINA
credenze, usanze, tradizioni montepelosane
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