Nel mese di
luglio il caldo del sol leone si fa sentire e l’acqua si consuma in abbondanza.
Nemici dei contadini, e di tutti coloro che vivono dei prodotti della terra, in
questo periodo, sono i temporali e specialmente le grandinate, che in estate
avanzata possono distruggere tutti i raccolti, sia dei campi che delle vigne,
già anch'esse sviluppate.
In effetti,
l'incubo della mal'annata pesava su tutti i paesani, compresi gli artigiani e i
negozianti, perché è chiaro che un cattivo raccolto, che spesso non permette di
pagare nemmeno i vecchi debiti, non consiglia di fare nuove spese, per cui non
ci saranno né abiti nuovi per Sant'Eufemia da commissionare al sarto, né scarpe
da richiedere allo scarparo per San Rocco, né, è evidente, potranno essere
fatti acquisti di alcun genere.
Molte volte
anche alcuni matrimoni, già promessi per il settembre, andavano a monte a causa
di un temporale e di una grandinata. Soffrivano di quei cataclismi,
specialmente i coloni detti rampicanti per la loro ostinata,
dura volontà di arrampicarsi nella scala sociale, per cui erano disposti ad
affrontare qualunque sacrificio e conseguentemente, ad esercitare il più
spietato sfruttamento della mano d'opera dipendente, i cosiddetti mesaruli
ingaggiati, cioè a mese soltanto per l'aia, e per i summìnt'. Per sfuggire alla
malasorte dei temporali, i rampicanti usavano prendere in fitto
le diverse quote di terra che conducevano in zone dell'agro di Irsina l'una
molto lontana dall'altra ai quattro punti cardinali, di modo che
se la grandinata colpiva il campo di una zona, risparmiava quelli delle altre
contrade.
Perché è
risaputo che i temporali, d'estate colpiscono tratti ben precisamente
delimitati di terreni, spesso addirittura seguendo il confine tra una terra e
l'altra.

Il
temporale, infatti, è governato da un genio maligno detto Monacello perché più
volte è stato visto coperto del saio francescano. Ma c'è un modo di combattere
il Monacello,
di ridurlo a mal partito e di conseguenza di salvare i campi dalla grandinata.
Questo modo lo conoscevano bene i contadini anche se solo alcuni, i più audaci,
i più precisi, erano capaci di metterlo in atto. Bisognava presentarsi in campo
aperto, sotto la grandinata che imperversava, il capo riparato da un grosso caldaio
e affondare nel terreno un coltello dal forte manico e dalla lama lunga,
appuntita e ben affilata. Si ingaggiava allora, una dura lotta tra il Monacello
che cercava di resistere al richiamo irresistibile di quel coltello piantato
per terra, e che perciò concentrava tutte le sue forze su quell'unico punto di
terra, scaricando grandinoni anche di un rotolo o due sulla testa del
massaro, ma costretto, perciò stesso a restringere l'ambito del suo dominio e a
liberare dalla sua minaccia tutti i campi circostanti; e il contadino che non
cessava di inveire contro il Monacello, insultandolo a sangue con
male parole, maledizioni e bestemmie di ogni genere, allo scopo di costringerlo
a palesarsi sempre di più ad acquistare la sua sagoma e fisionomia umana a mano
a mano che scendeva verso quella terribile calamita che è costituita dal
coltello piantato per terra.
Due, a
questo punto, erano le conclusioni possibili: o il Monacello” riesciva a
uccidere il cafone, massacrandolo a colpi di pesanti pezzi di ghiaccio; oppure
il contadino, se riusciva a tener duro, era capace di ammazzare lo spiritello
maligno quando inesorabilmente esso sarà costretto a materializzarsi davanti a
lui.
La lotta è
impari. Ma non è stato raro il caso, secondo la leggenda, di cafoni decisi ed
ostinati che sono riusciti nel loro intento di far fuori, con una terribile
coltellata alla pancia o alla gola, il diabolico Monacello, liberando i
loro campi, almeno per quell'anno, dalla minaccia di nembi, temporali e
grandinate.
Prima del
1942 l’approvvigionamento idrico era un problema perché mancava ancora un
acquedotto cittadino. Esisteva, allora, il mestiere dell’acquaiuolo, spesso
esercitato dalle donne, le quali invitavano, per le strade, a bere l’acqua
fresca. Gli uomini uscivano di casa con un cannello in tasca, di cui si
servivano per succhiare acqua dal barile dell’acquaiuolo, per una bevuta, al
prezzo determinato dal mercato, dal caldo, cioè, e dal numero di acquaiuoli in
attività. Chi poteva pagare, si faceva portare a casa una o più salme
(some) d’acqua, corrispondenti a cinque barili e a centosettantacinque litri.
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Tratto dal libro di
Michelino Dilillo
IRSINA
credenze, usanze, tradizioni montepelosane