Montepeloso
Tradizioni, storia, curiosità, immagini, lingua.

domenica 26 agosto 2018

Montepeloso cambia nome


Dal Registro delle deliberazioni dell’Archivio comunale si può consultare la Deliberazione del Consiglio comunale di Montepeloso n. 4 del 6 febbraio 1895, approvata da 16 consiglieri, con un solo voto contrario che cambiava il nome alla città.
Gli argomenti portati a sostegno della richiesta di cambiamento, al di là delle dotte considerazioni di cui si volle fare sfoggio e tutte ampiamente confutate in sede storica, sono riconducibili e si riducono in sostanza ad un eccesso, diciamo così, di sensibilità degli amministratori dell’epoca, i quali ammettevano: «Quando non abbiamo potuto fare a meno di confessare il nome del nostro paese, il risum tenetis di Orazio si è avverato ed abbiamo suscitato la ilarità».
Fu una grande prova di serietà e di amor patrio della classe dirigente dell’epoca. Non c’è che dire. Nella relazione introduttiva al dibattito, infatti, spicca la perorazione: «Esorto adunque i miei concittadini a voler imporre alla nostra Patria un altro nome che fosse (sic) più garbato, più armonico, e che principalmente non evocasse (sic) Montagne né Peli»
Ma non sembra che la popolazione montepelosana abbia mai condiviso l’opinione che quel nome potesse apparire ridicolo, visto che tuttora continua orgogliosamente ad usarlo.
Un decreto reale del 28 marzo 1895 accontentò gli amministratori comunali di Montepeloso … pardon … di Irsina, i quali, con deliberazione del 1° maggio dello stesso anno, ripristinarono il vecchio stemma di Montepeloso, «Consistente in tre monticelli con cinque spighe, delle quali tre poste sul monticello di mezzo ed una per ciascuno dei monticelli laterali. Le spighe comunemente si intende che vogliano dinotare dovizia di terre sative; ma una interpretazione forse più giusta vuole che queste spighe siano un ricordo della spiga che fu impronta della moneta di Eraclea e Metaponto e che furono elevate nello stemma della città per commemorare la sua greca origine. Infatti simili spighe si osservano negli stemmi delle città della Basilicata le quali pretendono ugualmente aver avuto origine greca, come sono Bernalda, Pisticci, Craco, Montescaglioso, Brindisi, ecc.”

Tratto dal libro di 

Michelino Dilillo 


IRSINA 
credenze, usanze, tradizioni montepelosane




mercoledì 22 agosto 2018

u Munacidd, folletto dei temporali


Nel mese di luglio il caldo del sol leone si fa sentire e l’acqua si consuma in abbondanza. Nemici dei contadini, e di tutti coloro che vivono dei prodotti della terra, in questo periodo, sono i temporali e specialmente le grandinate, che in estate avanzata possono distruggere tutti i raccolti, sia dei campi che delle vigne, già anch'esse sviluppate. 
In effetti, l'incubo della mal'annata pesava su tutti i paesani, compresi gli artigiani e i negozianti, perché è chiaro che un cattivo raccolto, che spesso non permette di pagare nemmeno i vecchi debiti, non consiglia di fare nuove spese, per cui non ci saranno né abiti nuovi per Sant'Eufemia da commissionare al sarto, né scarpe da richiedere allo scarparo per San Rocco, né, è evidente, potranno essere fatti acquisti di alcun genere.
Molte volte anche alcuni matrimoni, già promessi per il settembre, andavano a monte a causa di un temporale e di una grandinata. Soffrivano di quei cataclismi, specialmente i coloni detti rampicanti per la loro ostinata, dura volontà di arrampicarsi nella scala sociale, per cui erano disposti ad affrontare qualunque sacrificio e conseguentemente, ad esercitare il più spietato sfruttamento della mano d'opera dipendente, i cosiddetti mesaruli ingaggiati, cioè a mese soltanto per l'aia, e per i summìnt'. Per sfuggire alla malasorte dei temporali, i rampicanti usavano prendere in fitto le diverse quote di terra che conducevano in zone dell'agro di Irsina l'una molto lontana dall'altra ai quattro punti cardinali, di modo che se la grandinata colpiva il campo di una zona, risparmiava quelli delle altre contrade.
Perché è risaputo che i temporali, d'estate colpiscono tratti ben precisamente delimitati di terreni, spesso addirittura seguendo il confine tra una terra e l'altra.

Il temporale, infatti, è governato da un genio maligno detto Monacello perché più volte è stato visto coperto del saio francescano. Ma c'è un modo di combattere il Monacello, di ridurlo a mal partito e di conseguenza di salvare i campi dalla grandinata. Questo modo lo conoscevano bene i contadini anche se solo alcuni, i più audaci, i più precisi, erano capaci di metterlo in atto. Bisognava presentarsi in campo aperto, sotto la grandinata che imperversava, il capo riparato da un grosso caldaio e affondare nel terreno un coltello dal forte manico e dalla lama lunga, appuntita e ben affilata. Si ingaggiava allora, una dura lotta tra il Monacello che cercava di resistere al richiamo irresistibile di quel coltello piantato per terra, e che perciò concentrava tutte le sue forze su quell'unico punto di terra, scaricando grandinoni anche di un rotolo o due sulla testa del massaro, ma costretto, perciò stesso a restringere l'ambito del suo dominio e a liberare dalla sua minaccia tutti i campi circostanti; e il contadino che non cessava di inveire contro il Monacello, insultandolo a sangue con male parole, maledizioni e bestemmie di ogni genere, allo scopo di costringerlo a palesarsi sempre di più ad acquistare la sua sagoma e fisionomia umana a mano a mano che scendeva verso quella terribile calamita che è costituita dal coltello piantato per terra.  
Due, a questo punto, erano le conclusioni possibili: o il Monacello” riesciva a uccidere il cafone, massacrandolo a colpi di pesanti pezzi di ghiaccio; oppure il contadino, se riusciva a tener duro, era capace di ammazzare lo spiritello maligno quando inesorabilmente esso sarà costretto a materializzarsi davanti a lui.
La lotta è impari. Ma non è stato raro il caso, secondo la leggenda, di cafoni decisi ed ostinati che sono riusciti nel loro intento di far fuori, con una terribile coltellata alla pancia o alla gola, il diabolico Monacello, liberando i loro campi, almeno per quell'anno, dalla minaccia di nembi, temporali e grandinate.

Prima del 1942 l’approvvigionamento idrico era un problema perché mancava ancora un acquedotto cittadino. Esisteva, allora, il mestiere dell’acquaiuolo, spesso esercitato dalle donne, le quali invitavano, per le strade, a bere l’acqua fresca. Gli uomini uscivano di casa con un cannello in tasca, di cui si servivano per succhiare acqua dal barile dell’acquaiuolo, per una bevuta, al prezzo determinato dal mercato, dal caldo, cioè, e dal numero di acquaiuoli in attività. Chi poteva pagare, si faceva portare a casa una o più salme (some) d’acqua, corrispondenti a cinque barili e a centosettantacinque litri.
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Tratto dal libro di 
Michelino Dilillo 


IRSINA 
credenze, usanze, tradizioni montepelosane


lunedì 13 agosto 2018

tix tox e funtanidd


quand'è il tembo 
delle cigliege
le cigliege si vann accogliere
si vann accogliere col panieriiino
sotto l'albero del mio giardiiino.
a mangiar si fa così
siccosì siccosì
a dormir si fa così
siccosì siccosì 

Le ciliegie poi avevano una seconda vita, 
quando non si avevano le biglie 
e la pleistescion non era ancora stata inventata.


Per la stagione autunno inverno, 
il regolare svolgimento dei campionati 
di pallaaqualcosa invece era assicurato da 

i cocl.


sabato 4 agosto 2018

Irsina, la chiesa del Calvario e le Croci

Sulla piazza Andrea Costa, si affaccia il palazzo dei Loreto, che fu la sede del fascio prima e dell’Ente Riforma dopo la guerra. Questo palazzo sorse nel posto dove si ergeva la piccola chiesa di San Giovanni Battista o della Croce, o del Calvario, che perciò dovette essere abbattuta e successivamente ricostruita accanto al palazzo, sul Corso Canio Musacchio, angolo via Trento.
La chiesetta, antichissima, presentava sull’altare la statua di San Giovanni Battista ed ospitava i riti della Commenda religiosa Gerosolimitana dei potenti Cavalieri Giovanniti di Grassano che, al pari delle altre corporazioni fu sciolta per legge nel 1810. Abbandonata, come ricorda Janora nelle Memorie storiche, critiche e diplomatiche della Città di Montepeloso, la chiesa fu restaurata nel 1822 dai Padri Missionari che erano giunti a Montepeloso a cercare di risvegliare i sentimenti religiosi rispetto ai quali la popolazione si mostrava piuttosto fredda. La chiesa così fu ribattezzata del Calvario e nei pressi vennero erette cinque grandi Croci che portavano i nomi dei rispettivi finanziatori dei quali sono noti solo questi: Galizio Morani, Domenico Antonio Orlandi, Antonio Soriano, Giuseppe Nicola Amato.

Nei primi anni del ‘900 i Loreto proprietari dei terreni, non esitarono a demolire la chiesa di san Giovanni Battista con tutte le sue croci per edificare quel palazzo creando quindi anche l’ostruzione della via Vittoria parallela a via Trento e perpendicolare al Corso Canio Musacchio, sul quale, perciò, la detta via non ha accesso. L’esistenza delle croci aveva, intanto, dato il nome alla zona che continua ad essere denominata ancora oggi alle Croci, ma soprattutto aveva instaurato la consuetudine di celebrare la via crucis uscendo dalla porta di Sant'Eufemia, così che le 5 croci del Calvario costituivano probabilmente le ultime stazioni del percorso che partendo dalla Cattedrale si fermava alle seguenti stazioni: Annunziata, San Nicola, Sant’Andrea, SS Salvatore, San Francesco, Purgatorio e poi alle croci che allora erano fuori dell’abitato.
Usuale infatti era anche dire di chi si fosse avviato dal paese verso quelle zone ha giòt a vei a cruc, è andato per via della croce, nel precorso della via crucis. 
Il malcontento popolare per la demolizione di chiesa e croci si dice abbia indotto i Loreto a costruire accanto al loro palazzo la attuale chiesetta del Calvario e a porre accanto all’ingresso una di quelle Croci mentre un’altra venne issata su una colonna accanto ad altro palazzo della famiglia Loreto situato al quadrivio dove a vianouv per Bari e Potenza incrocia e taglia l’abitato.

Sullo spiazzo dove sorge ora la piazza Andrea Costa si usava fare, almeno nell’ultimo decennio dell’ottocento, l’aia comune dei piccoli contadini, finché un incendio pose fine a questa consuetudine. Quell’avvenimento però rimase memorabile nella mente di molti cittadini che usavano riferirsi, anche per calcolare l’età, a volte, a quando si appizzicò alle croci, e che dovette verificarsi, secondo la testimonianza di alcune persone anziane il 15 luglio del 1900. Il secolo nuovo, come si vede, cominciava sotto i migliori auspici per i contadini.


Tratto dal libro di 
Michelino Dilillo 



IRSINA 
credenze, usanze, tradizioni montepelosane