Ottobre
è il mese della vendemmia, e questa era una festa ad Irsina.
Solo
i grandi proprietari assumevano personale a giornata: le donne per tagliare
l’uva, i giovani per trasportarla fino al luogo della pigiatura, che veniva
solitamente affidata ai piedi dei ragazzi; uomini vetturali, che con bestie
da soma, qualche volta col traino, trasportavano nell’abitato, dove sono le
cantine, i barili di mosto e i vùtini (bigonce) di vinaccia che
vuotavano, mescolandoli, nel grande tino della vinnegna. I piccoli e
piccolissimi proprietari non assumevano mai personale a pagamento per il taglio
dell’uva. Bastava invitare le donne e le giovani del parentado e del vicinato.
Del resto, questo lavoro a volte si faceva a ritenna, prestandosi, cioè, le opere a vicenda, quante giornate
fai a me, tante io ne faccio a te. Ma per lo più la partecipazione era
gratuita. Anzi, ci si offendeva se non si era invitati alla vendemmia del
vicino di casa o dell’amico o del parente. E ciò perché la vendemmia era una
festa. Si lavorava sodo, ma si cantava si lanciavano lazzi e frizzi, si
scherzava, ci si divertiva, insomma, e giovanotti e giovanette avevano più
libertà del solito. Il lavoro, per quanto duro, lo permetteva. La spesa,
naturalmente, era assicurata, a carico del padrone della vigna; ed anche questa
era una buona ragione per aspirare all'invito. Altro segno se ce ne fosse
bisogno, della miseria e della fame, che spingeva ad affrontare una giornata di
lavoro solo per riempirsi la pancia. Solo p’a‘ventr, si mandavano i bambini in
campagna, dai sei – sette anni in poi, a fare i pastorelli o i supafasc,
servitorelli tuttofare nelle masserie. Insomma, p’a‘ventr significava che
quei bambini, per tutta la fatica cui erano sottoposti avevano diritto solo a NUTRIRSI
PER QUEL GIORNO, mentre non avevano diritto alcuno ad un qualunque salario.
C’è
un’altra occasione, che riguarda sempre la vigna, in cui si lavora e si
festeggia come durante la vendemmia, ed è quando si va a piantare il pàstino,
cioè un vigneto nuovo. Prima vanno gli operai specialisti, i quali fanno l’allineamento,
appuntano delle cannicelle in linee parallele, tutte alla stessa distanza a
segnare il posto dove mettere a dimora le viti. Poi, alcuni giorni dopo si va a
piantare il pàstino. C’è chi, con un enorme piantatore, pratica delle buche
profonde, e chi, al suo seguito, pianta una barbatella nel foro praticato.
Altri ancora adacquano, cioè innaffiano ben bene il terreno in cui la nuova
vite è stata messa a dimora; ed altri, con la zappa, accùfnèsc’n, cioè
ammucchiano il terreno intorno alla nuova pianta. Si canta e si scherza, anche
in questa occasione, e soprattutto si lavora e si mangia, cioè si lavorava e si
mangiava gratis tre volte al giorno, a colazione, a pranzo e la sera, a cena,
in casa del padrone, dove si svolgeva un vero e proprio banchetto.
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