Montepeloso
Tradizioni, storia, curiosità, immagini, lingua.

giovedì 6 settembre 2018

Settembre nella tradizione di Irsina (1)


Settembre era il mese più importante per gli Irsinesi, era il mese delle scadenze. A Santa Maria, natività di Maria Vergine, il giorno 8 settembre, scadevano i contratti. Si cambiava abitazione e cominciava l’anno del salario fisso per i braccianti delle masserie. Mettersi ad anno, era, fino all’ultimo conflitto mondiale, la forma più diffusa di lavoro dipendente.
Lannarùlo era alle dipendenze del padrone quasi come un servo della gleba. Le forme di contratto più comuni prevedevano che il padrone fornisse al suo dipendente sale tutti i giorni, un litro di olio al mese, oltre al due ruti, una forma di pane della misura di due rotoli, equivalente a circa milleduecento grammi. Alla fine della stagione il contratto prevedeva per il dipendente una compartecipazione al raccolto: il tomolo delle fave e un numero stabilito di tomoli di grano e di orzo che poi veniva moltiplicato per l'indice di produzione mediamente raggiunto in tutte le terre del padrone. Per vivere, la famiglia del salariato poteva disporre di un tomolo di grano al mese, detto macinatura perché appunto destinato ad essere macinato. Qui per tomolo, si intende l’unità di misura di capacità per misurare cereali, equivalente a circa 45 chilogrammi.
Se il salariato era addetto agli animali da latte, pecore o vacche, la partecipazione consisteva nel diritto ad una giornata di latte, al prodotto, cioè, che tutti gli animali davano in una giornata dell’anno stabilita in precedenza.
I salariati lontani dal paese, vivevano nella masseria per tutto l’anno, si cibavano quasi sempre di erbe o di carne mortizza degli animali della stessa masseria morti per cause accidentali; dormivano nella stalla sulla codda, su un sacco di paglia qualche volta coperta con una pelle; svolgevano, secondo le mansioni, tutti i lavori dei campi, accudivano alle bestie da allevamento e da lavoro; avevano il diritto, ogni quindicina, di venire la sera in paese, a turno, per cambiarsi la biancheria e stare la notte con la moglie; di fare la festa, nelle grandi occasioni, sempre a turno, con il dovere, però, di dedicare la mattina al servizio del padrone, in paese.
Massaro era il capo di tutti i lavoranti di una masseria;
c'era poi il massaro delle vacche e il massaro delle pecore;
il caporale era addetto ai traini;
l'annarùlo generico era aratore, imporcatore, seminatore;
ualàno era l'addetto agli equini di allevamento allo stato brado;
soprafascia era il ragazzo factotum, una specie di mozzo di masseria.
Poi c'era il guardiano, e, nelle grandi aziende con più masserie, il fattore che amministrava ogni attività per conto e in nome del padrone. E queste erano, diciamo così, le mansioni più importanti.
Il contratto si stabiliva l’otto di settembre, andava in vigore dalla mattina del nove e scadeva a mezzogiorno dell’otto settembre dell’anno successivo. Solitamente tutta la giornata dell’otto settembre era libera, almeno dopo aver fatto i soliti servizi di casa al padrone. In questa circostanza il salariato aveva interesse a finire presto. Quanto prima finiva, tanto prima era libero. Cominciava, perciò, prestissimo, puliva la stalla, governava le bestie, rinnovava la provvista dell’acqua andandola a prendere alla Fontana, oppure alla Peschiera o a Fest’l, acque sorgive incanalate per l’approvvigionamento idrico dell’abitato. Finiva, in genere, verso le dieci o le undici, ed allora era libero. Un padrone, però, dice una storiella, non la pensava così. Alle undici passate, quando il salariato andò a riferirgli che tutto era stato fatto, che era andato persino a buttar il letame della stalla nella vigna, e gli chiese se poteva considerarsi libero, il padrone rispose di rimando, orologio alla mano, che non era ancora suonato mezzogiorno. Ingiunse, pertanto, al dipendente, di andare ancora una volta alla Fontana a prendere un’altra salma d’acqua. Il dipendente dovette obbedire. Ma era appena uscito, con i muli, fuori dell’abitato, verso la Fontana, che dalla torre dell’orologio furono scanditi i fatidici rintocchi del mezzogiorno di Santa Maria. Senza frapporre indugi, allora, l’annarùlo lasciò immediatamente cadere la cavezza delle bestie e disse ai passanti di informare il padrone che si andasse a ritirare gli animali. Era un atto di indipendenza straordinario, compiuto da chi quella indipendenza non se la poteva permettere tanto facilmente e impunemente. Perciò si tratta di un fatto, cioè di una favola, che consentiva di sfogarsi a chi avrebbe voluto reagire così nella realtà, ma che ne era impedito dalla famiglia da mantenere e dalle prevedibili, disastrose conseguenze di tale gesto.
E tuttavia i padroni non cessavano di mormorare, scontenti, sulle incredibili e incomprensibili pretese dei dipendenti. Un padrone a cui si chiedeva il companatico ebbe a dire:
-         Che brutti tempi viviamo. Non c’è più ritegno. Ai miei tempi bastava un po’ di pane bagnato nel sale ed una bevuta d’acqua fresca che arricreàva i cristiani. Ora, niente di meno, vogliono il companatico e anche il vino. Oh, brutti tempi davvero. Dove andremo a finire, di questo passo?
Ed un altro padrone:
-         Guai a noi, il giorno in cui i cafoni impareranno a comprare la carne alla vicciarìa.
Per i salariati, però, c’era una bella soddisfazione che si poteva ottenere proprio quel mese, a Sant’Eufemia. La mattina del 16 settembre, infatti, si svolgeva, in onore della Santa patrona, una gara che consisteva nel tracciare «il solco di Sant’Eufemia«. Alla gara partecipavano i più bravi imporcatori, quelli cioè che erano capaci di tracciare solchi molto diritti. Il più bravo vinceva la gara, e della commissione giudicatrice facevano parte i massari più qualificati.
Il 12 settembre vi è la seconda e più importante fiera di merci e bestiame dell’anno e gli affari si concludono con maggiore facilità e soddisfazione. Attualmente la fiera di settembre dura un giorno solo. Ma fino a trent'anni fa durava due e anche tre giorni. Alla fiera di settembre si comprano molti maiali, che allevati, poi, in casa si macellano nei mesi invernali, quando fa freddo e la carne si rassetta. Il lardo la pancetta e la sugna forniscono la provvista di grassi per tutto l’anno. Non si usa per niente l’olio in quelle famiglie. La carne serve a preparare salsicce, soppressate, capicolli. Con le cotenne si fanno le cotiche, che servono a rendere prelibate le fave con le fette sotto, cioè a zuppa, mentre le estremità, zampe, testa, muso, orecchie si cuociono con i verz’.


Tratto dal libro di 

Michelino Dilillo 


IRSINA 
credenze, usanze, tradizioni montepelosane



Nessun commento:

Posta un commento