Settembre era il mese più importante per gli
Irsinesi, era il mese delle scadenze. A Santa Maria, natività di Maria Vergine,
il giorno 8 settembre, scadevano i contratti. Si cambiava abitazione e cominciava
l’anno del salario fisso per i braccianti delle masserie. Mettersi ad anno, era,
fino all’ultimo conflitto mondiale, la forma più diffusa di lavoro dipendente.
L’annarùlo era alle dipendenze del
padrone quasi come un servo della gleba. Le forme di contratto più comuni
prevedevano che il padrone fornisse al suo dipendente sale tutti i giorni, un
litro di olio al mese, oltre al due ruti, una forma di pane della
misura di due rotoli, equivalente a circa milleduecento grammi. Alla fine della
stagione il contratto prevedeva per il dipendente una compartecipazione al
raccolto: il tomolo delle fave e un numero stabilito di tomoli di grano e di
orzo che poi veniva moltiplicato per l'indice di produzione mediamente
raggiunto in tutte le terre del padrone. Per vivere, la famiglia del salariato
poteva disporre di un tomolo di grano al mese, detto macinatura perché appunto
destinato ad essere macinato. Qui per tomolo, si intende l’unità di misura di
capacità per misurare cereali, equivalente a circa 45 chilogrammi.
Se il salariato era addetto agli animali da latte,
pecore o vacche, la partecipazione consisteva nel diritto ad una
giornata di latte, al prodotto, cioè, che tutti gli animali davano in
una giornata dell’anno stabilita in precedenza.
I salariati lontani dal paese, vivevano nella
masseria per tutto l’anno, si cibavano quasi sempre di erbe o di carne mortizza
degli animali della stessa masseria morti per cause accidentali; dormivano nella
stalla sulla codda, su un sacco di paglia qualche volta coperta con una
pelle; svolgevano, secondo le mansioni, tutti i lavori dei campi, accudivano
alle bestie da allevamento e da lavoro; avevano il diritto, ogni quindicina,
di venire la sera in paese, a turno, per cambiarsi la biancheria e stare la
notte con la moglie; di fare la festa, nelle grandi occasioni, sempre a turno,
con il dovere, però, di dedicare la mattina al servizio del padrone, in paese.
Massaro era il capo di tutti i lavoranti di una masseria;
c'era poi il massaro delle vacche e il massaro
delle pecore;
il caporale era addetto ai traini;
l'annarùlo generico era aratore, imporcatore,
seminatore;
ualàno era l'addetto agli equini di allevamento allo stato
brado;
soprafascia era il ragazzo factotum, una specie di mozzo
di masseria.
Poi c'era il guardiano, e, nelle grandi aziende
con più masserie, il fattore che amministrava ogni attività
per conto e in nome del padrone. E queste erano, diciamo così, le mansioni più
importanti.
Il contratto si stabiliva l’otto di settembre, andava
in vigore dalla mattina del nove e scadeva a mezzogiorno dell’otto settembre
dell’anno successivo. Solitamente tutta la giornata dell’otto settembre era
libera, almeno dopo aver fatto i soliti servizi di casa al padrone. In questa
circostanza il salariato aveva interesse a finire presto. Quanto prima finiva,
tanto prima era libero. Cominciava, perciò, prestissimo, puliva la stalla,
governava le bestie, rinnovava la provvista dell’acqua andandola a prendere
alla Fontana,
oppure alla Peschiera o a Fest’l’, acque sorgive incanalate
per l’approvvigionamento idrico dell’abitato. Finiva, in genere, verso le dieci
o le undici, ed allora era libero. Un padrone, però, dice una storiella, non la
pensava così. Alle undici passate, quando il salariato andò a riferirgli che
tutto era stato fatto, che era andato persino a buttar il letame della stalla
nella vigna, e gli chiese se poteva considerarsi libero, il padrone rispose di
rimando, orologio alla mano, che non era ancora suonato mezzogiorno. Ingiunse,
pertanto, al dipendente, di andare ancora una volta alla Fontana a prendere
un’altra salma d’acqua. Il
dipendente dovette obbedire. Ma era appena uscito, con i muli, fuori
dell’abitato, verso la Fontana, che dalla torre dell’orologio furono scanditi i
fatidici rintocchi del mezzogiorno di Santa Maria. Senza frapporre indugi,
allora, l’annarùlo lasciò immediatamente cadere la cavezza delle bestie
e disse ai passanti di informare il padrone che si andasse a ritirare gli
animali. Era un atto di indipendenza straordinario, compiuto da chi quella
indipendenza non se la poteva permettere tanto facilmente e impunemente. Perciò
si tratta di un fatto, cioè di una favola, che consentiva di sfogarsi a chi
avrebbe voluto reagire così nella realtà, ma che ne era impedito dalla famiglia
da mantenere e dalle prevedibili, disastrose conseguenze di tale gesto.
E tuttavia i padroni non cessavano di mormorare,
scontenti, sulle incredibili e incomprensibili
pretese dei dipendenti. Un padrone
a cui si chiedeva il companatico ebbe a dire:
-
Che brutti tempi viviamo. Non c’è più ritegno. Ai miei tempi bastava un
po’ di pane bagnato nel sale ed una
bevuta d’acqua fresca che arricreàva i cristiani. Ora, niente
di meno, vogliono il companatico e anche il vino. Oh, brutti tempi davvero.
Dove andremo a finire, di questo passo?
Ed un altro padrone:
-
Guai a noi, il giorno in cui i cafoni impareranno a comprare la carne
alla vicciarìa.
Per i salariati, però, c’era una bella soddisfazione
che si poteva ottenere proprio quel mese, a Sant’Eufemia. La mattina del 16
settembre, infatti, si svolgeva, in onore della Santa patrona, una gara che
consisteva nel tracciare «il solco di Sant’Eufemia«. Alla gara
partecipavano i più bravi imporcatori, quelli cioè che erano capaci di
tracciare solchi molto diritti. Il più bravo vinceva la gara, e della
commissione giudicatrice facevano parte i massari più qualificati.
Il 12 settembre vi è la seconda e più importante
fiera di merci e bestiame dell’anno e gli affari si concludono con maggiore
facilità e soddisfazione. Attualmente la fiera di settembre dura un giorno
solo. Ma fino a trent'anni fa durava due e anche tre giorni. Alla fiera di
settembre si comprano molti maiali, che allevati, poi, in casa si macellano nei
mesi invernali, quando fa freddo e la carne si rassetta. Il lardo la
pancetta e la sugna forniscono la provvista di grassi per tutto l’anno. Non si
usa per niente l’olio in quelle famiglie. La carne serve a preparare salsicce,
soppressate, capicolli. Con le cotenne si fanno le cotiche, che servono a
rendere prelibate le fave con le fette sotto, cioè a zuppa, mentre le
estremità, zampe, testa, muso, orecchie si cuociono con i verz’.
Tratto dal libro di
Michelino Dilillo
IRSINA
credenze, usanze, tradizioni montepelosane
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