Montepeloso
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lunedì 12 agosto 2019

agosto nella storia di Irsina fra 800 e 900


In agosto si continua a trebbiare, ma soprattutto si aspetta il vento per ventolare per separare il grano dalla paglia, lanciando in aria, con le pale di legno, le spighe già battute.
A volte, specialmente per le fave che richiedono vento forte, si attendeva fino a settembre, ai primi venticelli autunnali, tanto afose ed immote sono, certe volte, le giornate di agosto.
Né sono mancati, ogni tanto, casi di incendi per autocombustione.
In agosto ci fu l’unico attacco aereo anglo-americano, sul nostro paese, durante la seconda guerra mondiale. Il 25 agosto 1943 stormi di quadrimotori inondarono i nostri campi già mietuti, le ristoppie disseminate di usìdd, le aie piene di biche, con piastrine e spezzoni incendiari cadenti da altissima quota, dove luccicavano minuscoli e argentei i liberators.
Usìdd sono piccole biche provvisorie, formate subito dopo la mietitura in attesa che i covoni, ormai ben asciutti e rassodati dal sole, possano essere carrati e sistemati in biche sull'aia.
Nel mese di agosto ci fu un altro incendio rimasto famoso punto di riferimento per contare gli anni. Nel luogo dove ora è sistemata la piazza Andrea Costa, alla fine del’800, si faceva l’aia comune, quando le croci, che avevano dato il nome al luogo, già non c’erano più. In un anno imprecisato ma che deve cadere secondo i riferimenti di coloro che calcolano l’età da quella data, immediatamente prima della fine del secolo passato tra il 1895 e il 1900, un incendio si sviluppò in quell’aia collettiva, per cause imprecisate, distruggendo buona parte del raccolto irsinese almeno quello dei contadini piccoli e medi, giacché i ricchi non accedevano all'aia collettiva, ma trebbiavano sulle proprie aie nelle loro masserie. 

Da allora si perdette l’abitudine di accostare all’abitato tutti i cereali da trebbiare, ed il tentativo di riprendere l’esperienza nell’ultimo dopoguerra, è stato subito reso vano dall’introduzione massiccia dei mezzi meccanici che alla metà di luglio fanno trovare tutto il raccolto in paese, magari già venduto. Non poche volte specialmente i contadini poveri, vendevano già a maggio, in erba, i loro raccolti a speculatori forestieri.

tratto dal libro di 





Michelino Dilillo 






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sabato 3 agosto 2019

Agosto - San Rocco a Irsina fra '800 e '900


La chiesa di San Rocco con la Signora L'sandr (Alessandra) che la apre ai visitatori.
Il rito iniziava una o due settimane prima e consisteva nel portare in giro per tutto l’abitato u cirie in una grande questua casa per casa. U cirie era è una specie di altarino votivo mobile abbastanza pesante ed era portato a spalle da ragazze o donne devote, ed era seguito dall’organizzatrice che intonava rosari e canti, e da una turba di monelli che facevano il coro. Si fermava ad ogni angolo di strada, e alle donne che si affacciavano per vederlo passare, la zelante organizzatrice chiedeva un contributo per le candele. La notte, o il giorno prima della ricorrenza, secondo la distanza del Santuario cui il cirio era diretto, cominciava il pellegrinaggio vero e proprio. Allora ad esso si accodavano, oltre alla solita turba di monelli scalzi e scamiciati, anche donne devote, a volte scalze, imploranti dal Santo o dalla Madonna, la grazia di un figlio, o la pace della famiglia, oppure il ritorno del marito o la guarigione di un malato, secondo i casi e le circostanze personali e familiari.
I coloni, invece, i rampicanti, quelli, cioè, che potevano disporre di un traino, facevano il viaggio con più comodità. I preparativi della partenza cominciavano qualche giorno prima della ricorrenza. Le donne preparavano polli o conigli ripieni, ben rosolati in padella o a fuoco sotto a fuoco sopra, con uno strumento adatto denominato forno campagna. I mariti ingrassavano le ruote dei traini, vi fissavano delle canne ad arco o dei semicerchi metallici in modo da potervi stendere un telone alla maniera dei carri del Far West, governavano abbondantemente le mule, spiavano il cielo per scorgervi i segni eventuali di un temporale in vista che avrebbe potuto far abbassare repentinamente la temperatura. Le ragazze ed i giovanotti preparavano i vestiti nuovi, si sforzavano di mettere da parte qualche gruzzoletto personale per quelle spesucce di cui era meglio non chiedere e non dar conto ai genitori.

I pellegrinaggi veri e propri di una volta sembrano non esistere più e le feste sono soltanto occasioni di divertimento di massa e fughe dalle angustie di tutti i giorni.
Evviva Santi Rocca,
e Santi Rocca evviva,
evviva Santi Ro’
ca int’ a Tolv staia.
La mattina del 16, a Tolve, davanti e nella chiesa del Santo, si poteva assistere (e succede ancora, sia pure in forma meno vistosa e in numero molto più modesto) a scene di devozione non so più se disgustose o commoventi. Gente inginocchiata che saliva, in quella posizione, la scalinata lunga della chiesa, soffermandosi su ogni gradino il tempo necessario a recitare una corona di rosario. Donne scarmigliate e piangenti che imploravano, chiedevano insistentemente e quasi minacciando reclamavano le grazie ed i favori più diversi. Gente che percorreva tutta la lunghezza della navata, fino alla statua del Santo, inginocchiata e piegata in due sul pavimento, con la lingua strisciante sui duri e sporchi mattoni di pietra. Persone che recavano in braccio ex voto di ogni genere, mani e gambe e piedi e teste e corpi interi, che poi fanno lunga mostra nella chiesa stessa, piena di questi oggetti e di altri più preziosi.
Il pomeriggio, però, la maggior parte di questi pellegrini, dopo aver consumato le cibarie portate da casa ed averle abbondantemente innaffiate di vino rosso generoso, non pensano più alla devozione, pensano a divertirsi.
tratto dal libro di 




Michelino Dilillo 






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