Qualche
giorno prima di Natale le donne fanno i pèttl, pasta lievitata fritta
nell’olio a forma di ciambelle.
Fare le
pèttole è un rito familiare. Tutta la famiglia, tranne gli uomini, si
raccoglie, di sera, attorno alla mamma che modella la pasta in larghi anelli
irregolari e la depone nella strascina o padella in cui frigge
l’olio da cui la ritrae quando è rosolata e sembra dorata. C’è una specie di
divisione del lavoro, quando più donne partecipano alla preparazione, per cui
il ritmo è serrato, chi mette continuamente pèttole crude, chi le
volta nella padella, chi le ritrae fritte, con certi forchettoni di legno
fabbricati dai pastori. I bambini osservano, con ansia appena trattenuta e
l’acquolina in bocca, le furiose bollicine dell’olio che frigge, l’anello che
si restringe mentre i bordi si gonfiano e si ingrossano, l’indorarsi della pèttola
che è pronta per essere presa con il forchettone, per far scorrere l’olio ed
essere deposta nel piatto. Ma le prime pèttole non rimangono lì, in attesa,
per molto tempo, perché i bambini le afferrano, si scottano, se le passano
dall’una all’altra mano, le divorano compatibilmente con la necessità di non
ustionarsi la bocca e la lingua. Poi, quando sono satolli, quando il loro quagghiaridd
, il piccolo stomaco da agnellini è pieno, i bambini cascano sulle sedie o per
terra, con i pugni chiusi, addormentati.
Allora le
donne possono, dopo averli sistemati nei letti, lavorare con più ordine e
sollecitudine, senza intralci.
È
severamente proibito bere acqua durante la cerimonia delle pettole, sennò s’
hard l’ugghi’, causerebbe cioè, secondo la credenza, un consumo
eccessivo di olio. Chi proprio non può fare a meno di bere, e l’olio che frigge
e il fumo della frittura che riempie la casa danno molta arsura, deve uscire
dalla stanza, meglio se va a bere nella casa della vicina.
In una
delle notti precedenti la vigilia di Natale, o anche più notti di seguito, si
svolgeva un’altra manifestazione, esterna, questa volta, per le vie
dell’abitato. Ne erano protagonisti i fornai, i quali giravano per il paese, in
corteo, facendo gran fracasso di timpani e di marmitte per incitare, anch’essi
con una filastrocca cantilenata, le massaie a fare le pettole:
Alzatevi,
mogli di cafoni; fate i pettoloni;
alzatevi,
mogli di artisti,
mettete le
pèttole nei canistri.
Insieme
alle pèttole, si fanno anche i crostoli, specie di gnocchi di pasta
dura non lievitata arrotolati col pollice sulla superficie di un canestro e poi
fritti nell’olio, come le pèttole, o cotti al forno; e le casatedde, lasagne
piegate e chiuse ad intervalli, in modo da formare degli incavi, indi
attorcigliate a spirale. La lasagna è stata tagliata con uno strumento adatto
che la lascia arricciata ai bordi. Le casatèdde, successivamente, vengono
fritte nell'olio o cotte al forno, e poi condite, e gli incavi se ne riempiono p’ u
mircùtt (il cotto di fichi) o con lo zucchero.
La vigilia
è il giorno del grande digiuno, interrotto, la sera, dalla zuppa di baccalà o
dalla minestra di pasta e fagioli. I fasòl sont’ a carn’ d’i pauridd’,
dice il proverbio, cioè i fagioli sono la carne dei poveri. Chi può,
naturalmente, mangia il pesce, e chi è ricco l’anguilla e il capitone.
Subito dopo
la cena inizia la grande veglia, la lunga notte di Natale, allorché si
raccontano le fiabe che non finiscono mai, si gioca a tombola, all’oca, a
carte. In qualunque tempo dell’anno, a chi racconta frottole o la
piglia per le lunghe, si usa dire: stupatill pa nott u Natèl. La notte
di Natale, infatti, è considerata la più lunga dell’anno e il giorno di Natale,
conseguentemente, il più corto ma anche quello in cui la giornata comincia a
crescere. A capodanno la giornata è già cresciuta di un passo di gallina.
I ragazzi
giocano alla v’rròzz’l’ nel modo seguente: si pone una monetina in
equilibrio su di un ditale, per terra, ai piedi di un piano inclinato
costituito da una tavola del pane o del ròccolo (focaccia). A turno i
ragazzi fanno rotolare una noce per ciascuno, con obiettivo il ditale e la
monetina. Chi, con la sua noce, riesce a colpire il ditale e a far cadere la
moneta, vince la partita e si appropria di tutte le noci che sono per terra e
che, prima che il bersaglio fosse stato colpito, avevano mancato il colpo.
Una
credenza vieta assolutamente ai coniugi di avere rapporti sessuali nella notte
di Natale, a pena di avere figli storpi e malaticci. Più particolarmente i
figli concepiti in quell’occasione sarebbero certamente dei lupi mannari (i
lup’nèr’).
Per le
feste di Natale si usava, anticamente riunirsi due o più famiglie, di parenti o
amici o compari, le quali fornivano ciascuna la propria parte di leccornie, di
cibarie e di vino. La festa in comune cominciava la sera della vigilia e si
concludeva la sera di Santo Stefano.
Un canto
paesano, ormai dimenticato dice:
Eh la
nott’a d’u natèl’
fôui na fest’ a pr’nc’pèl’,
p’ nu vôuv’ e n’as’nèll’
a Madònn’ e
San G’sèpp’ …
In questo
canto, su di un motivo di cantilena che sembra ricordare quello di tu scendi
dalle stelle, è inserita una battuta, quando ricorre il verso:
quant’ iè
bell’ sta pur’r’tè,
(quant’è
bella la povertà) che si interrompe con l’espressione:
Sint’ sint’?
e che
indica la meraviglia e la compiacenza del povero nel sentire rivalutata
evangelicamente la sua condizione. Ma il più delle volte la battuta suonava
ironica, malignamente malinconica, come per dire: A li fiss’, cioè: ditelo
ai fessi, ed era accompagnata da un sospiro di rassegnazione.
Un
complemento essenziale alla ricorrenza natalizia era la prima neve,
affettuosamente chiamata: a minènn (la bambina). Il
primo pensiero che tutti avevano, specialmente la mattina di Santo Stefano -
perché doveva nevicare la sera di Natale mentre la sera della vigilia avrebbe
dato fastidio - era di correre, appena svegli, alla porta e alle finestre ed
aprire gli scuri per controllare se fosse caduta la neve. La mancanza di neve
provocava, specie nei ragazzi, profonda delusione. Ma di breve durata. Natale è
Natale. Non si può rischiare, con tristezze e malinconie, di non gustare le
cose buone che la mamma ha preparato.
Anche per i
grandi, tuttavia, la neve è ben accetta oltre che desiderata a Natale. La
semina è conclusa, il gelo o i topi, secondo i casi, possono rovinare, sin
dall’inizio, l’opera compiuta. Una buona nevicata proprio ci vuole. Non per
niente il proverbio avverte che sotto la neve c’è il pane e sotto l’acqua
c’è la fame. Veramente la diretta esperienza paesana ha portato ad
altre conclusioni: chi ebbe pane morì, e chi ebbe fuoco si salvò. Ma a Natale ci
si può permettere il lusso di accettare di buon grado anche la neve.
Ai giorni nostri in ogni casa, si
può dire, c’è, a Natale, il presepio o l’albero di Natale più diffusamente il
primo, però; a volte ci sono entrambi. Ai primi del ‘900 invece, il presepio si
allestiva soltanto in alcune chiese, e in alcune case private. In chiesa i
presepi erano sempre gli stessi, mentre quelli allestiti nelle case private
variavano non solo tra di loro, ma non si ripetevano nemmeno di anno in anno
perché obbedivano ad esigenze di fantasia e di gusto di coloro che li
preparavano. Perciò si creava un’aspettativa nella popolazione e la gente era
curiosa di visitarli. Non c’è stata mai l’usanza di fare il giro di visite per
i presepi come per i sepolcri, le fanòie, i Santi Rocc’. E tuttavia
si faceva di tutto per essere ammessi a visitarli. Anzi, gli stessi privati
erano lusingati che il proprio presepio fosse apprezzato e trovato più bello di
un altro, e perciò ammettevano volentieri, generalmente, i visitatori. Le
visite ai presepi si facevano dopo Natale e prima dell’epifania. La sera dell’epifania
le feste natalizie si concludevano proprio con lo smaltimento del presepio, i
cui rami, considerati benedetti, si portavano in campagna, specialmente nelle
vigne, come accadeva per i sepolcri. La mattina del sei gennaio c’è anche
l’ultima cerimonia religiosa che si riferisce al Natale: il battesimo di Gesù
bambino. Era famosa, un tempo, quella che si svolgeva nella chiesa di San
Francesco, nella quale si riversava, alle cinque del mattino, quasi tutta la
popolazione, dopo che si erano prenotati i posti sin dal giorno precedente portandovi
le sedie da casa o affittandole dalla sagrestana. La cerimonia consisteva in un
normale rito di battesimo, ma svolto in forma solenne e reso più vivo ed
attraente dai canti, dall’incenso, dall’organo. Era uno spettacolo, insomma.
Alla fine della cerimonia l’officiante passava tra le file dei fedeli, con il
bambinello in braccio, perché tutti lo potessero baciare.
Con il Natale si chiude l’anno, ma
non si esauriscono le tradizioni, le usanze, le credenze montepelosane, ormai
seguite solo da pochissime persone anziane e in via d’essere da tutti
dimenticate. Altri pregiudizi, altre usanze, altre credenze, altre tradizioni
sostituiscono le vecchie e la vita continua.
Tratto dal libro di
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